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Riforma del Lavoro - INTERVISTA
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(12 luglio 2012) - fonte: www.illaboratorio.net - inserita il 18 luglio 2012 da 24893
Sullo sfondo di una riforma "complessivamente utile" che però deve essere considerata "una prima riforma, un avvio", resta un problema di fondo: "distinguere il lavoro dipendente da quello che non lo è" e soprattutto affermare: "culturalmente un nuovo sistema di relazioni tra le parti. Un modello più partecipativo di relazioni."Onorevole, un suo giudizio complessivo sulla riforma
Complessivamente a me sembra che sia una riforma utile perché ha finalmente preso in mano una materia che si era distorta da tempo. Il nostro mercato del lavoro era diventato pieno di "buchi"; in particolare l'esplosione della figura dei precari aveva alterato sia gli equilibri economici che sociali, di conseguenza era necessario ed urgente affrontare questo problema. Inoltre la drammaticità della crisi che stiamo attraversando ha reso acuta la questione delle protezioni: molti lavoratori non avevano tutele sufficienti, la precarietà dei contratti coincideva con l'assenza di protezioni sociali e quindi l'idea di intervenire mettendoci le mani è stata certamente buona. Ovviamente per ragioni legate alle difficoltà finanziarie generali del Paese, nonché per i ritardi accumulati, questa può essere considerata una prima riforma, un avvio. Sarebbe sbagliato considerarla definitiva, ma bisogna prenderne i punti positivi, come ad esempio aver scelto il contratto a tempo indeterminato come asse portante del nostro mercato del lavoro; aver definito l'apprendistato come il contratto più rilevante per l'ingresso nel mondo del lavoro; aver affrontato la questione delle coperture per quanto riguarda l'allargamento degli ammortizzatori sociali; aver affrontato più in generale il tema della riforma degli ammortizzatori sociali, e sulla base di queste cose positive andare avanti per migliorare ulteriormente e, se serve, correggere anche alcuni punti.
L'iniziativa dalla quale è scaturita la riforma del nostro mercato del lavoro è stata dettata dalla Bce, da una banca. Eppure si tratta non di scelte tecniche, ma squisitamente politiche che hanno avuto ed hanno un forte impatto sociale. Senza mettere in discussione il ruolo della Bce si tratta comunque di un'iniziativa di carattere politico ma fortemente voluta da un istituto finanziario, come si spiega questa distorsione?
Che si tratti di una distorsione è fuori di dubbio. Si spiega col fatto che la Bce è intervenuta a seguito di tre anni di disastri economici. Noi abbiamo accumulato tre anni di ritardo con il governo Berlusconi e Tremonti senza affrontare alcun problema e sottovalutando la crescita drammatica della crisi; di conseguenza abbiamo offerto il destro alla Bce per spiegarci quale era la strada da imboccare se volevamo provare a risanare la nostra economia. Se poi alcune autorità internazionali abbiano più o meno abusato del loro ruolo, questa è una discussione interessante, ma abbastanza accademica, perché resta il fatto che l'errore era al nostro interno. Ci siamo posti nella condizione di venire criticati in maniera così vigorosa.
Secondo lei con un governo di centro sinistra quella lettera, in particolare con quei contenuti, diretti cioè alla richiesta di una maggiore flessibilità nel nostro mercato del lavoro e ad una riforma della contrattazione che rendesse più rilevante quella aziendale, non ci sarebbe stata?
Questo non lo so, anche perché noi abbiamo scelto di non accelerare verso le elezioni e di chiedere a Monti di gestire una così difficile fase di transizione. Se lei intende dire che il centro sinistra ha delle tensioni interne e una rappresentazione diversificata dei problemi sociali che potevano renderlo più prudente su questi argomenti può essere un'osservazione comprensibile e ragionevole. Resta il fatto che noi, in questi mesi, abbiamo sostenuto con linearità e coerenza il governo Monti, quindi non me la sento di dire che in caso di un governo Bersani o di un governo comunque di centro sinistra avremmo fatto magari un po' meglio su alcune cose. Di certo non avremmo rinunciato a risolvere quei problemi che il Governo sta affrontando. Come nel caso della riforma del lavoro, rispetto alla quale la lettera della Bce dà indicazioni generali e che in alcuni casi non trovano rispondenza nel testo finale- Ad esempio la soluzione adottata sull'articolo 18 è molto equilibrata e c'è stato un grande contributo del Partito Democratico perché si arrivasse a questa soluzione diciamo "alla tedesca". Se avessimo dovuto prendere alla lettera la Bce nei punti in cui si parla di flessibilità in uscita, beh qualcuno aveva interpretato quella proposta in maniera molto più esasperata.
In effetti, all'inizio si pensava che proprio la flessibilità in uscita sarebbe dovuta essere al centro degli interventi.
Al di là dei giudizi di merito e delle singole soluzioni sui vari aspetti, quella della Bce resta un'agenda seria, i punti che sono stati rilevati sono stati più o meno tutti affrontati, e la domanda che ci dobbiamo porre è se lo abbiamo fatto perché ce lo ha chiesto la Bce o perché dovevamo farlo comunque. Semmai la Bce ci ha dato uno stimolo perché la situazione era quella che ho descritto.
Entrando più nel merito della riforma, sulla flessibilità in entrata, cioè su tutte le forme contrattuali che permettono l'ingresso nel mercato del lavoro, vige una presunzione di subordinazione. Secondo lei questa presunzione non può rischiare di limitare le possibilità di ingresso al mercato del lavoro, ed in particolare, con riferimento al contratto a tempo determinato averlo voluto "disincentivare" non può creare effetti contrari a quelli voluti, cioè creare una maggiore precarizzazione?
Il punto è che per quando riguarda la flessibilità e le modalità di ingresso questa è una riforma a metà. Perché su questo aspetto sarebbe stato sufficiente semplificare a quattro o cinque le tipologie contrattuali, mettendo bene in evidenza che c'èra una tipologia prioritaria ed ordinaria, quella cioè a tempo indeterminato, dopo di che c'èra un area d'ingresso ordinata intorno all'apprendistato. Poi gli stagionali, che in alcuni campi devono continuare ad esistere, penso ad esempio a tutto il mondo del turismo e i contratti a chiamata, perché anche questi rispondono ad esigenze reali. Quattro o cinque tipologie contrattuali avrebbero consentito di tenere in equilibrio sia la presunzione di subordinazione, sia quelle esigenze di reale flessibilità che effettivamente esiste nel mercato del lavoro e rappresenta anche una fonte di opportunità. In questo senso io penso che uno degli errori, degli equivoci che c'è in questa riforma è l'aver voluto equiparare al massimo dei contributi previdenziali i contratti a progetto. I contratti a progetto sono una delle componenti importanti del nuovo mercato del lavoro, sono stati anche una delle tipologie più soggette ad abuso, perché intorno all'idea di progetto si è costruita una forma di flessibilità impropria, però per contrastare i contratti a progetto impropri e falsi non si può penalizzare quelli buoni e veri che riguardano spesso molti giovani. Il problema è distinguere il lavoro dipendente da quello che non lo è, su questa distinzione bisogna focalizzare l'attenzione, piuttosto che su quella tra subordinato o meno. Esiste un lavoro dipendente e c'è un lavoro indipendente ed autonomo; queste due fisionomie hanno entrambe la loro legittimità nel mercato del lavoro, e bisogna distinguerle per mantenerle in equilibrio. Su questo la riforma fa dei passi in avanti ma sconta alcuni limiti.
A proposito di Semplificazione, la nostra normativa sul lavoro è particolarmente complessa. La semplificazione potrebbe rappresentare una riforma a costo zero capace di rendere più attraente per gli investimenti il nostro mercato del lavoro. La Riforma varata semplifica?
Non come sarebbe stato necessario, penso che noi ci portiamo dietro un'incrostazione burocratica nella nostra struttura legislativa complessivamente intesa. Si pensi anche alla semplificazione necessaria per le imprese; qualcosa si è fatto, ma bisognerebbe essere molto più drastici nel rendere più semplice l'approccio al nostro mercato del lavoro. L'equivoco sta nell'idea che la semplificazione sia assenza di regole, invece no: poche regole chiare sono anche più controllabili di tante farraginose. Questo è un terreno sul quale i governi futuri, una volta fatte le riforme di struttura, come quella del sistema pensionistico - diciamo le "fondamenta" del nuovo edificio - dovranno assolutamente dedicarsi a semplificare, creando un impianto moderno su cui fondare un'idea nuova di Lavoro.
Un altro aspetto critico del nostro sistema è quello dei contenziosi. Una criticità questa riconosciuta da più parti. Abbiamo un mercato del lavoro caratterizzato da un elevato numero di contenziosi, particolarmente lunghi e dall'esito incerto. Come interviene la Riforma su questo punto, la centralità assunta dalla magistratura del lavoro viene diminuita?
Qui c'è un aspetto contraddittorio, fatto assolutamente in buona fede, perché la stessa soluzione sull'articolo 18 (che io considero valida), nell'accentuare il ricorso al giudice aumenta, e non riduce, il rischio dell'intervento della magistratura. Non è detto che aumenti il numero dei contenziosi, ma sicuramente sarà così per i ricorsi alla magistratura in materia di lavoro. Penso che questa tendenza possa essere, diciamo, attenuata, se si afferma culturalmente un nuovo sistema di relazioni tra le parti. Un modello più partecipativo di relazioni. Dentro un modello partecipativo si affrontano anche i contenziosi e se ne risolvono molti riducendo drasticamente il ricorso al giudice. Questa è la strada da praticare.
Si riferisce alla possibilità di aumentare la flessibilità interna, sullo sfondo del tanto citato modello tedesco? La possibilità di una gestione più aziendale dei rapporti di lavoro?
Si, senz'altro. Si parla e si è parlato molto di modello tedesco, dimenticando di sottolineare che questo è fortemente partecipativo, addirittura con un eccesso rispetto alla situazione italiana: li c'è la partecipazione per legge. Se si sceglie la strada del modello tedesco bisognerebbe avere la coerenza di sceglierlo in tutte le sue parti. C'è chi obietta che il modello partecipativo sarebbe anti-competitivo perché somiglierebbe ad una sorta di eccesso di concertazione. Ma la Germania è un Paese competitivo, è una delle grandi potenze industriali del mondo, e lo fa con un modello che dal dopo guerra in avanti vede i lavoratori nei consigli di amministrazione. Non è detto che in Italia bisogni arrivare a quel livello ma francamente la teoria che dice che la partecipazione è antitetica alla competitività è una tesi fasulla che non sta in piedi.
Ma nella direzione della contrattazione aziendale andava l'articolo 8 della manovra di ferragosto dello scorso anno. Perché allora ha trovato così tante resistenze?
La contrattazione aziendale deve essere libera. Deve essere affidata alle parti ed anche le sue regole devono essere gestite e stabilite dalle parti. La legge interviene già troppo. Ben vengano le riforme, ma attenzione, il legislatore dovrebbe sempre mettersi nell'ottica di cogliere il contributo libero che danno le parti, perché le parti stesse sono dei regolatori, in quanto conoscono sul campo il mercato del lavoro, ed anche dal conflitto dalla loro dialettica poi emerge un punto di equilibrio molto democratico, perché costruito sul campo. In questo senso le obiezioni a quell'intervento nascevano dal fatto che si trattava di un provvedimento fortemente impositivo nei confronti delle logiche autonome della contrattazione.
Le sue parole ricordano quelle del senatore Torelli all'epoca dell'approvazione dello "statuto dei lavoratori". Anche allora la Cisl difese il principio dell'autonomia sindacale nei confronti del legislatore. Ma salvaguardando il principio dell'autonomia sindacale, lei non crede che nella prima fase di confronto sulla riforma, quella tra governo e parti sociali, ci si stata una sorta di deresponsabilizzazione di alcuni partiti politici che restavano in attesa di quello che avrebbero deciso i sindacati, rischiando di addossare a questi ultimi anche responsabilità di politica generale?
Per quanto riguarda la gestione di materie come quella della disciplina dei licenziamenti e di quelle tipiche della contrattazione non mi pare che ci sia un interesse generale per il quale le trattative possano travalicare i poteri del parlamento o dei partiti. Io penso che la buona politica sia anche quella che sa raccogliere le istanze dei diversi soggetti. La democrazia moderna è molto complessa, fondata sulla ricerca di equilibrio. Esiste la necessità di equilibrio tra i poteri esecutivo, legislativo, giudiziario; si è affermata la necessità di garantire il potere d'indipendenza dell'informazione, della stampa; così come esiste il potere delle parti sociali. Io privilegio un'idea della democrazia a maglie larghe, che non significa che sia incapace di decidere. Per esempio lo strumento dell'avviso comune lo trovo un metodo molto interessante, che è stato adottato più volte da diversi governi al di là del colore politico. Cioè il legislatore individua un tema e lo indirizza alle parti, chiedendo loro un contributo. Se le parti lo danno è sempre consigliabile che il legislatore lo raccolga, poi ovviamente il parlamento è sovrano, ma è consigliabile che sia almeno vagliato; se invece le parti non riescono a dare questo contributo è legittimo che decida il legislatore. Ma questo lo dico anche in riferimento ad altre questioni, penso ad esempio alle liberalizzazioni, in quel caso il governo avrebbe dovuto in maniera più efficace rivolgersi anche alle componenti corporative; ai tassisti, ai farmacisti, ad esempio, offrendo loro dei paletti e chiedendo loro entro tali limiti di offrire una possibile riforma. Mentre invece si crea spesso un gioco delle parti per il quale si aspetta sempre che il governo faccia il passo, specifichi la proposta, dopodiché si ci mette in una posizione di critica. La responsabilizzazione delle parti sociali non significa deresponsabilizzare la politica. Il problema attiene alla concezione che si ha della democrazia; certo la democrazia è fatica, perché comporta l'organizzazione del consenso, ma il risultato è la stabilizzazione del sistema.
Costo del lavoro: con la riforma secondo lei si riesce a diminuirlo?
No, non dipende da questa Riforma. La verità è che noi stiamo affrontando in maniera separata delle riforme che dovrebbero essere un capitolo unico: quella delle pensioni, quella del mercato del lavoro, quella fiscale, sono un unico problema. In verità la riforma fiscale ha poi altri "pezzi" a se collegata, comunque, faccio un solo esempio, che attiene alla riforma delle pensioni ma che incide direttamente sul mercato del lavoro, che è per l'appunto armonizzazione dei contributi previdenziali. Quando con la riforma si è alzato il contributo previdenziale dei lavoratori a progetto si è intervenuti su una questione che attiene anche direttamente alla riforma previdenziale in senso lato. Io penso, ad esempio, che finché non si armonizzano i contributi, ma non ad aumentare, abbassando invece il 33% perché è troppo alto, e finche si mantengono i contributi separati, si lascia spazio a manovre in penombra. Da questo punto di vista è giusta l'idea di uniformarli, perché negli anni passati una delle cause della precarietà andava ricercata esattamente nel costo del lavoro: il fatto che tutta una serie di contratti costassero molto di meno di quello a tempo indeterminato stimolava l'imprenditore ad utilizzarli, perché se in maniera legale posso assumere al 20% invece che al 33% ovviamente assumo al 20%. Allora, il 33 è troppo, il 20 è troppo poco; bisogna trovare un punto di equilibrio che garantisca da un lato la sostenibilità del sistema previdenziale e dall'altro eviti un utilizzo diciamo "forzato" di determinate tipologie contrattuali.
Però con la Riforma per gli iscritti alla gestione separata Inps si alza la contribuzione di sei punti lasciandoli fuori dalla copertura dell'ASPI.
E' un doppio errore. È un errore averli alzati al 33% ed è ancora più grave se si pensa che non hanno avuto in cambio le protezioni dei nuovi ammortizzatori sociali.
Un'ultima domanda. Torniamo al contratto a tempo indeterminato, pur considerando che ora non dovrebbe costare di più rispetto agli altri. Però, alla luce dei fenomeni di globalizzazione, siamo oggi di fronte ad un modello di produzione molto diverso da quello del nostro recente passato. La fabbrica tradizionale, quella del '900 per intenderci, è evidentemente sempre meno centrale e le aziende oggi sono legate a fattori di produzione estremamente variabili, legate a commesse spesso limitate nel tempo, mentre si aprono nuovi mercati come quello dell'est europeo ed ora, dopo le primavere arabe, anche del nord Africa, tutti Paesi con un costo del lavoro molto basso e tassi di crescita molti alti . Secondo lei in questo contesto flessibile, è possibile pensare che il contratto a tempo indeterminato possa essere davvero il contratto dominante?
Io penso che le due questioni non siano in contraddizione. Che andiamo verso un mercato globale è fuori discussione, che questo accentui anche la mobilità è altrettanto evidente; che ci sia una competizione con un mondo emergente, caratterizzato non solo da grandi numeri, ma anche da molti giovani è una delle sfide più complicate da gestire, ma questo porta acqua al mulino della stabilità. Dove può competere un Paese come il nostro? Sul costo del lavoro? Assolutamente no, sarebbe comunque perdente. Sulla quantità? Nemmeno. Tantomeno può competere sul rinnovamento generazionale, anche se in parte dovrà farlo comunque, visto che il gap rispetto al numero della popolazione giovanile è enorme, penso alla Turchia per esempio. Allora deve competere sulla qualità. La qualità del prodotto, la qualità della competizione e la qualità delle relazioni, non c'è un buon prodotto in un ambiente non buono. Non c'è buona qualità in un ambiente non collaborativo fondato sul rispetto delle risorse umane. E allora da questo punto di vista il contratto a tempo indeterminato è quello che stabilizza, che fidelizza il rapporto tra dipendente ed azienda, che garantisce il reddito, che consente di avere prospettive solide. E' la condizione per chiedere al lavoratore stabilizzato e all'impresa l'innalzamento della qualità. Questa è la sfida. Per cui, da questo punto di vista, se il nostro Paese vuole competere, deve innalzare la qualità del prodotto, ma per farlo deve innalzare anche quella del processo che porta alla produzione e dell'ambiente che ne è alla base, su cui il prodotto è costruito.
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