Il supporto dei servizi per l’infanzia all’occupazione femminile #conibambini

L’Italia è uno dei paesi dove meno donne con figli lavorano. L’occupazione femminile è più bassa nei territori con carenze di servizi per l’infanzia.

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L’Italia è uno degli stati Ue più in ritardo nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Soprattutto dopo la nascita di un figlio, il tasso di occupazione femminile – già basso – cala. Così nella maggior parte dei paesi dell’Unione le donne con 3 figli lavorano più di quelle italiane con un unico bambino.

55,5% donne italiane tra 20 e 49 anni con un figlio occupate nel 2021. In Slovenia, Portogallo, Danimarca e Svezia la quota con 3 figli è attorno all’80%.

All’origine di questo tipo di divari vi sono diversi fattori: da quelli sociali e culturali alle politiche familiari e di genere adottate in ciascuno stato. Un aspetto di primo piano nella promozione dell’occupazione femminile è costituito dall’accessibilità dei servizi per l’infanzia e lo sviluppo della rete educativa tra 0 e 6 anni.

Oltre a rappresentare il primo tassello delle politiche di contrasto alla povertà educativa, l’estensione di asili nido e scuole per l’infanzia è un supporto anche alla partecipazione femminile al mercato del lavoro. Le attività di cura nel nucleo familiare, per stereotipi di genere, ricadono spesso sulle donne. Limitandone così le potenzialità e le possibilità di inclusione nella società attiva.

27,9% donne inattive in Ue per cui il motivo principale è la necessità di accudire bambini o adulti bisognosi di assistenza (8% tra gli uomini).

Anche per questo motivo l’approvazione, alla fine dello scorso novembre, dei nuovi obiettivi sull’estensione dei servizi educativi per l’infanzia riguarda il nostro paese così direttamente.

Dal 2002 l’Ue promuove la diffusione di nidi, servizi e scuole per l’infanzia, da offrire ad almeno il 33% dei bimbi sotto i 3 anni e al 90% di quelli tra 3 e 5 anni. Dall’anno scorso sono stati innalzati rispettivamente al 45 e al 96% in vista del 2030. Vai a “Che cosa prevedono gli obiettivi di Barcellona sugli asili nido”

Approfondiamo meglio la posizione dell’Italia rispetto agli altri paesi Ue nell’occupazione femminile, oggi segnata da profondi divari interni. Gap che molto spesso coincidono con quelli nell’offerta di servizi.

Come varia l’occupazione tra le donne che hanno figli

In Europa, in media, circa il 71% delle donne tra 20 e 49 anni sono occupate. Una quota inferiore rispetto agli uomini della stessa età (80,5%), ma che non varia in modo così sensibile tra chi ha figli e chi no.

Lavora infatti il 71,9% delle donne senza figli, il 70,9% di quelle con un figlio, il 72,6% in presenza di due figli. Il calo drastico si ha in presenza di 3 o più figli, dove il tasso di occupazione scende al 57,5%.

L’Italia si attesta su livelli più bassi di 15-18 punti rispetto alla media Ue. Lavora il 56,3% delle donne senza figli, quota che scende al 55% circa con uno o due figli e crolla al 40,2% con 3 figli.

Nel confronto europeo emerge come le donne italiane con un figlio risultino occupate molto meno spesso di quelle con 3 figli in altri paesi. Ad esempio la Slovenia (dove lavora l’82,8% delle madri con 3 figli tra 20 e 49 anni), il Portogallo (80,4%), la Danimarca (79,1%), la Svezia (79%). Sono 22 su 27 i paesi in cui le donne con 3 figli hanno tassi di occupazione superiori a quelle italiane con un solo bambino.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Eurostat
(pubblicati: martedì 27 Settembre 2022)

I divari interni sull’occupazione femminile

Il ritardo del nostro paese nel confronto europeo è l’esito di profondi divari interni. Nel 2021 i giovani tra 25 e 34 anni lavorano nel 62,6% dei casi, quota che scende al 54% tra le donne. Mentre nell’Italia settentrionale questa percentuale si avvicina al 68%, nel mezzogiorno crolla al 34,9%.

2 volte il tasso di occupazione femminile nel nord rispetto al mezzogiorno.

Nella fascia tra 35 e 44 anni il tasso occupazione femminile è del 62,4%: oltre 10 punti in meno della media (72,9%). Anche in questo caso con ampie distanze tra nord (74,5% di donne occupate) e mezzogiorno (42,1%).

La strategia per ridurre i divari interni, riavvicinando l’Italia agli standard europei, passa anche dall’estensione dei servizi per la prima infanzia. Un aspetto sottolineato anche dalla recente raccomandazione europea sul tema.

La disponibilità di servizi di assistenza a costi sostenibili e di alta qualità incide in modo altamente positivo sulla situazione occupazionale dei prestatori di assistenza, in particolare delle donne.

Sono generalmente i territori con meno servizi per l’infanzia ad avere una minore occupazione femminile, e viceversa. La relazione va letta nei due sensi, in un circolo vizioso che si autoalimenta.

Nei territori in cui poche donne lavorano, la percezione della necessità di servizi è spesso inferiore; allo stesso tempo, in mancanza di nidi, la possibilità per le donne con figli di lavorare viene di fatto fortemente limitata. Creando un disincentivo evidente all’occupazione femminile.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Istat
(pubblicati: giovedì 14 Luglio 2022)

Nel 2021, l’età media delle partorienti è stata superiore ai 30 anni, tanto per le cittadine straniere quanto per le donne italiane (33,1 anni). Nella fascia tra 35 e 44 anni, così come in quella delle 25-34enni, i territori con maggiore occupazione femminile sono anche quelli con i servizi per l’infanzia più sviluppati.

Sono 20 le province in cui oltre il 75% delle donne 35-44 anni lavorano: tutte – tranne una – superano l’offerta media nazionale di nidi (27,2%), attestandosi spesso nelle prime posizioni in Italia per ampiezza del servizio. Tra queste, Ravenna, Bologna, Perugia, Trieste, Firenze, Reggio nell’Emilia e Aosta. In tutti territori appena citati, un’occupazione femminile vicina o superiore all’80% si associa a un’offerta superiore ai 40 posti ogni 100 bambini. Addirittura quasi 50 a Ravenna (48,6%) e Bologna (46,5%).

L’unica eccezione è rappresentata da Belluno: tasso di occupazione femminile all’82,7% e 25,4 posti ogni 100 bambini. Meno della media nazionale, sebbene non troppo distante.

Al contrario, dove i servizi scarseggiano anche l’occupazione femminile è molto più bassa.

L’offerta educativa nei territori con minore occupazione femminile

Sono 12 le province dove meno del 40% delle donne tra 35 e 44 anni sono occupate. Nessuna raggiunge i 20 posti nido ogni 100 bambini presenti.

Parliamo dei territori di Palermo, Vibo Valentia, Barletta-Andria-Trani, Siracusa, Catania, Cosenza, Agrigento, Enna, Caserta, Messina, Caltanissetta e Napoli. L’offerta più ampia tra questi si riscontra nella città metropolitana di Messina (18,9 posti ogni 100 bambini). Tuttavia il capoluogo si attesta su un dato inferiore (8,1% nel 2020) e la quota di comuni dell’ex provincia che offrono il servizio è pari al 34,3% del totale. Più di quanto rilevato nel 2013 (27,8% di comuni attrezzati), ma meno dell’attuale media nazionale (59,3%) e del mezzogiorno (46%).

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Istat
(pubblicati: giovedì 14 Luglio 2022)

Gli altri territori a bassa occupazione femminile presentano un’offerta di gran lunga inferiore rispetto a quella messinese. In particolare le province di Cosenza
Caserta e Caltanissetta, tutte con 8,9 posti ogni 100 residenti sotto i 3 anni. Molto lontani dalla vecchia soglia del 33% fissata in sede Ue, per non parlare della nuova del 45%.

Gli stessi capoluoghi delle 3 province citate si attestano tra l’11,1% di Cosenza e il 15,5% di Caltanissetta. In termini di diffusione sul territorio, offrono servizi per la prima infanzia 45,2% dei comuni casertani, il 30% di quelli cosentini e il 18,2% di quelli nisseni. Cifre che fanno il paio con quelle sulle poche donne che lavorano in queste aree.

Una relazione da non dare per scontata

Certamente la relazione va letta in entrambe le direzioni, ovvero i territori con minore occupazione potenzialmente esprimono una minore domanda di servizi. Ma ridurre tutto a quest’unica dimensione sarebbe parziale, e i dati sembrano suggerire che tale interpretazione vada data sempre meno per scontata.

Come abbiamo avuto modo di approfondire in passato, nelle regioni del mezzogiorno, dove gli asili nido sono molto meno diffusi, è molto più alta anche la quota di anticipatari alla scuola dell’infanzia. Ciò significa che una domanda latente del servizio esiste.

Perché se è proprio nei territori con pochi asili nido che gli anticipi sono più frequenti vuol dire che è la scuola dell’infanzia a farsi carico di una domanda che già oggi esiste, pur non essendo intercettata dall’offerta di nidi, ancora inadeguata in molte aree del paese.

Serve un’offerta che la sostenga, in modo da ridurre i divari, tanto di genere quanto educativi.

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I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati relativi ad asili nido e servizi prima infanzia sono di fonte Istat.

Foto: Israel Andrade (unsplash)Licenza

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