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Le nuove regole dell’accoglienza

Negli ultimi anni il sistema di accoglienza in Italia è stato caratterizzato da una gestione emergenziale che ha prodotto pratiche e risultati molto diversi a seconda dei territori. Nel periodo più recente, almeno in alcune aree del paese, il modello aveva iniziato a strutturarsi in maniera più ordinata seguendo l’indicazione secondo cui i Centri di accoglienza straordinaria (Cas) avrebbero dovuto raccogliere l’esperienza del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifigiati (Sprar), generalmente riconosciuto come un esempio positivo.

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Lo Sprar – oggi Siproimi – era composto da una rete di progetti in capo agli enti locali. Un sistema di accoglienza integrata e diffusa che non si limitava all’assistenza ma attraverso progetti personalizzati accompagnava all’autonomia. Servirà tempo per verificare come si riconfigurerà e quali standard riuscirà a garantire il Siproimi. Vai a "Che cosa sono i Cas, lo Sprar e gli Hotspot"

Già nella scorsa legislatura, in particolare attraverso il decreto Minniti-Orlando, avevamo assitito a una contrazione dei diritti dei migranti e a un cambio di prospettiva sul ruolo del terzo settore, da una funzione di sussidiarietà e sostegno a una più votata al mero controllo degli ospiti. È con il primo governo Conte però che questo disegno assume un’accentuazione decisamente più marcata, attraverso la trasformazione dell’assetto complessivo del sistema di accoglienza.

Lo Sprar viene trasformato in Siproimi, escludendo dal sistema i richiedenti asilo, nonché i rimanenti titolari di protezione umanitaria.

I Cas diventano un passaggio obbligato, e non “straordinario”, del percorso dei migranti in Italia.

Cambia dunque anche la ragion d’essere dei Cas, che vengono trasformati in strutture dove i migranti devono attendere la decisione sulle richieste di asilo. Senza più avere nel frattempo a disposizione alcun accompagnamento all’autonomia e all’integrazione. Al taglio dei servizi, previsto dal nuovo capitolato di gara, si associa una drastica riduzione degli importi messi a disposizione per la gestione dei centri.

Per di più tra i tre tipi di centro ora previsti (singole unità abitative, centri collettivi fino a 50 posti e centri fino a 300 posti) i tagli più consistenti coinvolgono proprio quelli che prevedono l’accoglienza diffusa in piccoli appartamenti. Progetti nei quali è peraltro più difficile sviluppare economie di scala, come invece è possibile fare nei centri più grandi.

La risposta del terzo settore

Proprio contro questo netto cambio di direzione si è sviluppata fin da subito la protesta degli enti gestori, che si sono opposti alle nuove regole sia dal punto di vista della sostenibilità economica sia contestando il taglio dei servizi. La prima reazione del terzo settore è stata una serie di ricorsi al Tar, per chiedere la sospensione dei bandi. In alcuni casi i ricorsi non sono andati a buon fine, in altri invece il tribunale si è preso più tempo per approfondire la questione nel merito e ancora non sappiamo quale sarà la decisione delle corti interpellate.

Scopri di più sui ricorsi in

Indipendentemente dai ricorsi, spesso i gestori hanno deciso di chiamarsi fuori dal sistema di accoglienza. A un anno dall’approvazione del decreto sicurezza e del nuovo capitolato, risulta sempre più chiaro come questo rifiuto abbia causato per molte prefetture una effettiva difficoltà ad assegnare tutti i posti ritenuti necessari. Si tratta in questo caso di una difficoltà dettata da elementi strutturali. La nuova normativa infatti è molto chiara e fornisce pochissimo spazio di manovra agli uffici territoriali del governo, che si trovano schiacciati tra la necessità di garantire un servizio previsto dalla legge e delle regole che trovano difficile applicazione.

Un fenomeno potenzialmente esplosivo, che per ora rimane sotto traccia grazie al ridotto numero di nuovi ingressi nei centri, dovuto al drastico calo degli arrivi (di flussi di richiedenti asilo che mai – è utile ribadirlo – hanno rappresentato un’emergenza né un’invasione), ma che in ogni caso produce effetti distruttivi sui percorsi di integrazione di migliaia di richiedenti asilo.

Ma cosa accadrebbe se i numeri dovessero aumentare? Quali sono i piani e le opzioni a disposizione se le strutture attive non dovessero essere più sufficienti? Domande a cui è necessario rispondere per cominciare finalmente a sviluppare una politica di pianificazione dell’accoglienza e dell’integrazione piuttosto che condannare l’intero sistema all’estemporanea gestione dell’emergenza, con tutti i suoi effetti in termini di violazione di diritti, sperpero di denaro pubblico e illegalità diffusa.

Inoltre, anche se il numero degli arrivi dovesse mantenersi stabile rimarrebbero da sciogliere problemi non irrilevanti. Il fatto che alcuni territori, non riuscendo ad assegnare tutti i posti in accoglienza, ospitino meno migranti di quanto previsto mette in discussione uno dei principi fondamentali del sistema di accoglienza italiano, ovvero quello della governance multilivello.

Il sistema di accoglienza sembra gestito giorno per giorno senza nessuna programmazione strategica.

Il Piano nazionale per l’accoglienza riconosce, infatti, la necessità di programmare la distribuzione dei migranti su base regionale. Attraverso il Tavolo di coordinamento nazionale si dovrebbe giungere a definire una ripartizione tra le diverse realtà locali seguendo il principio di proporzionalità rispetto alla popolazione residente (circa 2,5 posti in accoglienza ogni 1.000 residenti).

La ripetizione dei bandi

Uno degli strumenti che abbiamo utilizzato, per far fronte alla carenza di dati ufficiali, è stata la banca dati dei contratti pubblici di Anac (Bdncp). Da questa abbiamo estratto e analizzato i contratti pubblici in materia di accoglienza dall’approvazione del decreto sicurezza fino agli inizi di agosto 2019.

Nonostante un arco temporale di analisi ristretto ai primi mesi di applicazione delle nuove norme, e alcuni limiti strutturali della Bdncp, primo fra tutti il fatto che non sono presenti in questa banca dati i contratti per importi inferiori a 40mila euro, sono emersi alcuni elementi interessanti.

Innanzitutto vale la pena evidenziare il numero consistente di contratti messi a bando in affidamento diretto nel corso di questi pochi mesi. Nonostante il percorso per assegnare la gestione dei nuovi Cas preveda l’utilizzo di procedure aperte, che offrono maggiori garanzie di trasparenza e concorrenza.

L’utilizzo dell’affidamento diretto peraltro dovrebbe essere limitato a casi di necessità ed urgenza e per importi limitati. Eppure non si può certo dire che l’Italia in questo periodo stia attraversando una fase “emergenziale”. Non si vede dunque da dove sorga questa urgenza, se non dalla difficoltà delle prefetture di assegnare i posti attraverso le nuove regole e quindi dalla necessità di prorogare i contratti in corso.

Le procedure di affidamento diretto o in economia sono state spesso utilizzate in questi mesi per prorogare contratti in corso, attivi grazie alla vecchia normativa. Vai a "Cosa sono le procedure di scelta del contraente"

La procedura standard per assegnare la gestione di un centro di accoglienza consiste nel pubblicare una gara aperta. In alcuni casi però sono state utilizzate anche procedure negoziate. Gli affidamenti diretti o in economia possono essere usati per ragioni di necessità ed urgenza e per importi limitati. In molti casi dunque sono impiegati per prorogare contratti in corso (così come le procedure negoziate).

Le procedure di scelta del contraente sono il modo attraverso cui le stazioni appaltanti decidono come assegnare un contratto. Sono disciplinate dal codice degli appalti che stabilisce le situazioni e le modalità con cui possono essere utilizzate.

Per approfondire vai a “Cosa sono le procedure di scelta del contraente“.

FONTE: Elaborazione openpolis su dati Anac
(ultimo aggiornamento: martedì 26 Novembre 2019)

Si tratta in questo caso di un dato che non ci spiega esattamente cosa è successo ma indica una difficoltà del sistema ad applicare le nuove regole attraverso procedure ordinarie.

Un altro modo per rilevare se alcune prefetture abbiano avuto difficoltà ad assegnare gli appalti è quello di guardare le ripetizioni delle gare. Il fatto che una prefettura proponga più di una volta un accordo quadro per assegnare la gestione di un certo tipo di centro è infatti il sintomo di problemi nell’assegnazione della prima gara. Altrimenti non si vede la necessità di una ripetizione.

Delle 81 prefetture che a inizio agosto avevano messo a bando degli accordi quadro per la gestione di Cas 11 avevano ripetuto, almeno una gara, una o più volte.

Quando una prefettura pubblica un accordo quadro per una delle tre tipologie di centro previste dal nuovo capitolato stabilisce in partenza il numero di posti che è necessario coprire, grazie a quel tipo di centro, per soddisfare i bisogni del territorio. La ripetizione di uno di questi bandi indica che qualcosa non è andato per il verso giusto con la prima gara, di solito perché non si è riusciti ad assegnare tutti i posti inizialmente previsti.

Nel grafico sono indicati sia i primi bandi che le successive ripetizioni.

FONTE: Elaborazione openpolis su dati Anac
(ultimo aggiornamento: giovedì 8 Agosto 2019)

Anche questo tipo di analisi si limita a presentare un quadro generale, senza fornire informazioni di dettaglio né sul perché i bandi siano stati ripetuti né sull’entità del problema riscontrato dalla prefettura. Si tenga presente peraltro che non necessariamente una prefettura che non è riuscita ad assegnare tutti i posti in accoglienza decide di riproporre la gara.

Nonostante i dati Anac forniscano sempre una visione parziale sono comunque molto utili per individuare alcune tendenze generali che andremo poi a verificare attraverso un’analisi più dettagliata di alcuni territori e attraverso il confronto con chi in questo settore lavora sul campo.

Un primo aspetto da evidenziare è sicuramente quello geografico. Le prefetture che hanno riproposto dei bandi sono tutte del centro nord. In secondo luogo, a parte il caso di Pisa, hanno tutte riscontrato problemi ad assegnare bandi per la gestione di piccoli centri. Di converso risulta come siano decisamente minori i problemi nell’assegnazione di posti nei centri di grandi dimensioni.

6 gli accordi quadro messi a bando dalla prefettura di Reggio Emilia nel tentativo di assegnare la gestione dell’accoglienza in centri collettivi fino a 50 posti e in singole unità abitative.

In effetti la maggior parte di queste 11 prefetture non hanno proprio proposto bandi per grandi centri. Probabilmente perché consapevoli che il territorio non era predisposto a questo tipo di accoglienza. Solo 5 tra queste prefetture hanno indetto gare per Cas fino a 300 posti, e 3 hanno riscontrato problemi.

I territori che più si erano strutturati su modelli di accoglienza diffusa hanno sofferto maggiormente le nuove regole.

I dati dunque confermano come il nuovo capitolato svantaggi l’accoglienza diffusa. Non a caso il tema dei bandi deserti e delle gare riproposte emerge in maniera più decisa in alcune aree del paese. Ovvero quelle dove prefetture e realtà del terzo settore avevano negli scorsi anni puntato su centri di dimensioni medio piccole, spesso in unità abitative, in un’ottica di inclusione dei migranti nel tessuto sociale ed economico locale.

Il tentativo di alcune prefetture di proseguire su questa strada ha inoltre palesato le criticità del nuovo modello. Criticità che, a seconda dei casi, possono aver riguardato la sostenibilità economica di questi progetti con il nuovo capitolato o il rifiuto di adeguarsi a una nuova impostazione dell'accoglienza in cui non sia prevista alcuna forma di integrazione.

Intervista a Stefano Trovato

Stefano Trovato è membro dell'esecutivo nazionale del CNCA, il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza. Stefano ci puoi spiegare dal tuo punto di vista quali sono le ragioni per cui alcune realtà del terzo settore hanno deciso di non partecipare ai bandi?

Ascolta l'intervista integrale a Stefano Trovato

Le ragioni sono sostanzialmente di due ordini, che a volte sono separate e a volte vanno insieme. C’è una ragione di tipo economico, per cui i servizi che vengono richiesti, secondo la gran parte delle organizzazioni, non possono essere coperti da quel tipo di tariffa e ci sono ragioni di tipo ideale. Molta parte degli attori della cooperazione e dell'associazionismo, non si considerano soggetti che fanno “albergaggio”, non intendono cioè gestire strutture alberghiere. Si ritengono invece soggetti che svolgono un ruolo preciso nella società, che non è solo di tipo economico ma anche sussidiario rispetto ad alcuni servizi che lo stato dovrebbe offrire, fornendo prestazioni che si inseriscono all’interno di un percorso di emancipazione e di inserimento nel tessuto sociale. 

Dai dati che abbiamo analizzato ci risulta che più di frequente i problemi emergono nell’accoglienza in piccoli centri, ci confermi questa tendenza?
Sì, confermo la tendenza. Questo perché gran parte della cooperazione si è strutturata nell’accoglienza diffusa. Un sistema tipico già dell’accoglienza Sprar, che ha caratterizzato proprio un modello italiano, che prevedeva l’inserimento dei migranti nel territorio a piccoli gruppi. Chiaramente la motivazione economica riguarda il fatto che nelle strutture caratterizzate per un’accoglienza diffusa le possibilità di fare economie di scala sono minori, cosa che invece è più fattibile nelle grandi strutture.

Nonostante in prevalenza i problemi si siano manifestati per i piccoli centri abbiamo registrato criticità anche nell’assegnazione di bandi per grandi strutture, per quale ragione secondo te?
Molto spesso i luoghi in cui non si è accolta la richiesta della prefettura di fornire accoglienza in grandi centri, sono gli stessi in cui già precedentemente questo tipo di risposta non era presente. Generalmente chi risponde a questo tipo di richiesta sono soggetti che hanno già in uso strutture di questo tipo. Pensiamo ad attori economici anche di tipo transnazionale o, com’è successo soprattutto nel 2015-2016, ad alcuni ex albergatori che, non avendo più spazio nel settore turistico, hanno destinato le loro strutture al settore dell’accoglienza. Oppure realtà come la croce rossa o soggetti legati alla chiesa, che disponendo già di grandi strutture e non avendo quindi necessità di affittare, possono sfruttare le economie di scala.

Analizzando i dati ci risulta che il rifiuto del terzo settore di partecipare ai nuovi bandi si esprima in maniera più forte nel centro nord, ma sappiamo che il fenomeno è più ampio. Per quanto hai potuto vedere quanto è diffusa questa posizione a livello nazionale?

Per quanto riguarda le realtà che fanno parte del Cnca questo fenomeno è diffuso in tutto il territorio e in maniera abbastanza uniforme, anche se con delle dinamiche e delle motivazioni diverse. Sicuramente al sud, anche per motivi di opportunità di lavoro che mancano fortemente nel meridione, la tendenza alla non partecipazione è stata a volte un po’ mitigata. Per questa ragione hanno partecipato ai bandi anche organizzazioni che rifiuterebbero quell’approccio cercando di adattarsi, magari facendo rete tra loro per sopperire alla mancanza di risorse. In ogni caso questo aspetto mi pare molto limitato infatti la non partecipazione ha riguardato l’80% delle organizzazioni aderenti al Cnca, soprattutto del nord e del centro-nord.

Se ripetendo nuovamente le gare le prefetture non dovessero riuscire ad assegnare tutti i posti ritenuti necessari quali sono i possibili scenari?
Fin dall’inizio uno strumento che hanno utilizzato è stato quello della proroga dei contratti in corso o una trattativa sulla proroga. Ad un certo punto però il ministero dovrà scegliere se modificare il capitolato o utilizzare altri modi.

Diverse organizzazioni hanno presentato dei ricorsi contro il nuovo capitolato. Sai come stanno procedendo?
Da noi le organizzazioni che hanno scelto di fare ricorso sono una minoranza, il 5%. I primi ricorsi non sono andati bene, ma è interessante il caso di un gruppo di organizzazioni toscane che ha fatto ricorso al Tar e questo si è riservato tempo fino a gennaio dell’anno prossimo per esprimere una valutazione approfondita. Questo è importante perché vuol dire che ci sarà una risposta nel merito.

La situazione in Toscana

La Toscana è una delle regioni in cui il fenomeno dei bandi deserti si è manifestato in maniera più evidente.

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In effetti in questo territorio il problema è diventato così urgente che a giugno la regione ha approvato una delibera per mettere a bando 4 milioni di euro da destinare come cofinanziamento a favore di enti pubblici o del terzo settore per progetti destinati alle persone straniere rimaste prive di reti di inserimento sociale.

€ 4 mln l’importo messo a bando dalla regione Toscana per servizi integrativi nel settore dell'accoglienza.

Lo sforzo va nella direzione di fornire nuove risorse a quelle organizzazioni che hanno partecipato ai bandi ma non hanno la possibilità di fornire i servizi di integrazione che il nuovo capitolato non prevede e non finanzia. Una strada che è stata percorsa anche da altre regioni, come il Lazio o la Calabria, seppur con risorse più limitate.

Approfondendo l’analisi sulla Toscana emergono problemi in diverse province, non tutti rilevati dai dati Anac. Due tra tutte raccontano bene le criticità che possono manifestarsi quando buona parte del terzo settore si chiama fuori dal sistema di accoglienza, sono i casi di Firenze e Livorno.

A Livorno, come emerso anche nella stampa locale, gran parte dei bandi per l’accoglienza sono andati deserti. In questo caso dopo il fallimento del primo bando, la prefettura non ha ritenuto di pubblicarne di nuovi e ha invece deciso di trasferire altrove i migranti presenti nei centri che sono stati chiusi.

Come è possibile verificare dai documenti pubblicati sul sito della prefettura di Livorno, dei 1.000 posti messi a bando dopo l’approvazione del dl sicurezza solo 564 sono stati effettivamente assegnati.

Per approfondire questa situazione abbiamo fatto richiesta di accesso agli atti alla prefettura di Livorno che ha risposto positivamente fornendo i numeri dell’accoglienza sul territorio a maggio 2018 e giugno 2019.

Dall’analisi di questi dati si ricava che a fine giugno 2019 nella provincia erano attivi solo 6 Cas (tenuti da 4 gestori) con una capienza complessiva di 624 posti. Solo un anno prima i gestori erano 16 e i centri attivi, che potevano ospitare 1.262 persone, erano 35.

6 i centri rimasti attivi nella provincia di Livorno a giugno 2019 di cui due sono di grandi dimensioni.

La grande maggioranza dei gestori ha deciso di non partecipare alla nuova gara. Tutti i centri piccoli e molti di medie dimensioni hanno chiuso e il numero di posti disponibili in accoglienza è drasticamente calato.

La prefettura di Livorno ha risposto alla nostra richiesta di accesso agli atti fornendo dati aggiornati a maggio 2018 e giugno 2019 sui centri di accoglienza straordinaria attivi nella provincia di Livorno. I dati riguardano in particolare: i gestori, la localizzazione dei centri, le presenze, il tipo di ospiti, la capienza e il tipo di struttura.

FONTE: Prefettura di Livorno
(ultimo aggiornamento: martedì 8 Ottobre 2019)

Ai migranti ospiti dei centri che sono stati chiusi è stato proposto il trasferimento, spesso in altre località. Molti hanno accettato, abbandonando percorsi di inserimento sviluppati nel tempo sul territorio. Altri invece hanno “deciso” di rimanere a Livorno rischiando la marginalità.

Quello dei trasferimenti è un tema che non riguarda solo Livorno ma che si sta verificando in tutto il territorio nazionale con effetti distruttivi sui percorsi di integrazione di migliaia di persone. Una questione che meriterebbe di essere analizzata nel dettaglio per misurarne entità e impatto ma su cui, anche in questo caso, manca qualsiasi informazione ufficiale.

Tra le varie situazioni simili, o che hanno coinvolto molte aree della Toscana, quello della prefettura di Firenze è un caso particolare in cui sembra essersi manifestato un vero e proprio muro contro muro tra prefettura ed enti gestori.

La prefettura di Firenze sembra entrata in un meccanismo da cui non riesce a uscire e che ogni volta produce lo stesso esito.

All’inizio del 2019 i centri di accoglienza della provincia di Firenze erano attivi grazie a convenzioni del 2017 che avevano raggiunto la propria scadenza naturale a dicembre 2018. Per aspettare l’emanazione della nuova normativa voluta dal governo Conte I e in particolare il nuovo capitolato era stato quindi necessario prorogare il termine dei contratti fino al 30 aprile 2019.

A fine marzo la prefettura ha quindi messo a bando 3 accordi quadro. Il più ampio era quello per singole unità abitative ma era comunque molto rilevante il numero di posti previsti per i grandi centri.

Il risultato però è stato evidentemente diverso dalle attese. Il bando per grandi centri è andato completamente deserto. Per gli altri due invece gli enti gestori hanno presentato offerte per un numero molto ristretto di posti. Alla fine di tutte le operazioni sono state firmate solo 3 convenzioni per un totale di 285 posti sui 1.800 inizialmente offerti.

15,8% la quota di posti assegnati in accoglienza dalla prefettura di Firenze con il primo bando.

Dopo l’approvazione del dl sicurezza e del nuovo capitolato di gara, ad aprile 2019 la prefettura di Firenze ha messo a bando i primi tre accordi quadro per la gestione dell’accoglienza. Alla fine di tutte le operazioni però sono state firmate solo 3 convenzioni per un totale di 285 posti sui 1.800 inizialmente offerti.

FONTE: Elaborazione openpolis su dati della prefettura di Firenze
(ultimo aggiornamento: giovedì 14 Novembre 2019)

Dato il fallimento del primo bando la prefettura si è vista costretta a prorogare nuovamente i contratti in modo da garantire il servizio fino al 31 ottobre 2019. A giugno sono stati quindi pubblicati 3 nuovi bandi per assegnare i 1.500 posti rimasti scoperti.

Se possibile però questa procedura ha dato esiti ancora più insoddisfacenti. Dei 1.500 posti offerti i gestori ne hanno messi a disposizione solo 141 in centri collettivi fino a 50 posti. Mentre gli altri due bandi sono andati completamente deserti. Inoltre non è affatto detto che questi pochi posti messi a disposizione si trasformeranno in convenzioni. Le offerte infatti sono state presentate da due gestori che già avevano partecipato alla prima gara, uno dei quali era stato escluso dalla prefettura stessa.

Com’è possibile che la prefettura non abbia previsto questo esito e messo in campo misure alternative?

Viene da domandarsi, di fronte gli esiti di questa nuova gara, com’è possibile che la prefettura abbia lasciato trascorrere mesi mettendo in campo esclusivamente un piano che ha prodotto un altro risultato fallimentare.

D’altronde osservando i centri di accoglienza attivi, in proroga, nella provincia di Firenze a giugno 2019 si nota subito come in questo territorio si sia sviluppato un modello di accoglienza diffusa in tanti piccoli centri che accolgono i migranti per lo più in appartamenti. Un modello dunque molto diverso da quello che viene incentivato attraverso il nuovo capitolato.

La prefettura di Firenze ha risposto alla nostra richiesta di accesso agli atti fornendo dati sui centri di accoglienza straordinaria attivi nella provincia di Firenze nel 2018 e nel 2019. I dati qui riportati sono aggiornati al giugno 2019 e riguardano in particolare: i gestori, la localizzazione dei centri, le presenze, la capienza e il tipo di struttura. Alcuni di questi centri risultano non avere ospiti al momento della rilevazione ma non è chiaro se si tratti di una fase congiunturale o se siano centri prossimi alla chiusura.

FONTE: Prefettura di Firenze
(ultimo aggiornamento: giovedì 14 Novembre 2019)

A luglio, nel tentativo di sbloccare la situazione, la prefettura di Firenze sembra decidere di cambiare strada. Il percorso gli viene indicato con un avviso del ministero dell'interno (prot. 10813 del 18/06/2019) attraverso cui si invita a procedere non più tramite procedura aperta ma tramite procedura negoziata.

Il risultato però continua a deludere le aspettative. Un solo gestore ha risposto all’avviso mettendo a disposizione 68 posti in centri collettivi di medie dimensioni.

«Dalla scorsa primavera abbiamo lanciato bandi per l'accoglienza e di recente siamo usciti con nuove manifestazioni di interesse. L'intento della prefettura è garantire la prosecuzione dei servizi di accoglienza a tutti coloro che ne hanno diritto e sono già presenti nelle nostre città». Per questo è «importante che tutti gli enti gestori si candidino per poter garantire la prosecuzione» dei progetti.

Insoddisfatta del risultato, a ottobre, la prefettura ha riaperto i termini della procedura negoziata aspettandosi a quanto pare un esito diverso dai precedenti. Scaduta ormai l’ultima proroga di cui si ha notizia dai documenti prefettizi e dopo un anno dall’entrata in vigore del decreto Salvini e del nuovo capitolato, nella provincia di Firenze la maggior parte dei posti ritenuti necessari a garantire l’accoglienza risultano ad oggi non assegnati.

Nel corso dei mesi la prefettura ha rivisto al ribasso le proprie stime sul numero di posti che era necessario garantire nella provincia. Dai 1.500 posti previsti a giugno si è infatti passati ai 1.000 di luglio e infine agli 800 di ottobre. Un calo che non è però bastato per risolvere il problema.

In un momento in cui il sistema vede ridursi il numero complessivo di ingressi, ci si sarebbe potuti concentrare in una strutturazione più efficiente ed efficace dell’accoglienza. Implementando quelle best practice che favoriscono l’integrazione e l’inserimento dello straniero aiutandolo a diventare un soggetto attivo e produttivo all’interno della comunità.

Al contrario il protrarsi di questa situazione configura il contesto ideale per tornare a gestire l’accoglienza in termini emergenziali nel caso i flussi dovessero tornare a crescere. Costituisce cioè il terreno fertile per la creazione e lo sviluppo di sacche di marginalità e disagio sociale, con il portato che ben conosciamo in termini di facili strumentalizzazioni.

Intervista a Giulia Capitani

Giulia Capitani è Migration Policy Advisor di Oxfam che, tra le molte attività, gestisce anche diversi centri di accoglienza per migranti sempre in strutture di piccole dimensioni secondo un modello di accoglienza diffusa. Quest’anno però, a causa delle nuove regole dell’accoglienza, anche Oxfam ha deciso di non partecipare ai nuovi bandi per la gestione dei Cas. Ci puoi raccontare com’è maturata la vostra decisione?

Ascolta l'intervista a Giulia Capitani

È stata una discussione abbastanza animata all’interno dell’organizzazione. Perché non partecipare ai bandi ha due importanti ricadute: il fatto che quelli che fino a quel momento sono stati i tuoi beneficiari non lo sono più e rischiano di essere trasferiti anche in altre regioni; e l’impatto che questo può avere sugli operatori che con i rifugiati e i richiedenti asilo lavoravano. Era però impossibile per la nostra organizzazione, anche fatte queste valutazioni, accettare la compressione di diritti contenuta nei nuovi capitolati. Quello che ci ha spinto a rinunciare è stato lo snaturamento assoluto della funzione dell’operatore. Non venivano più richiesti ruoli come educatore o quantomeno figure che accompagnassero queste persone in un percorso di autonomia. C’è stato invece uno sbilanciamento enorme sui servizi di guardiania. Uno snaturamento del nostro lavoro sociale tale da renderlo insostenibile non tanto economicamente ma come motivazioni.

Si è trattato di una decisione individuale o è stata discussa e concordata con gli altri enti del terzo settore?
Ci sono stati momenti di coordinamento e di confronto e anche lettere di richiesta di sospensione degli atti di gara firmate collettivamente. Ma in conclusione si è trattato di una scelta individuale e, com’è normale, ogni cooperativa e ogni associazione ha deciso per sé.

Da quello che sai come hanno fatto i gestori che hanno deciso, per varie ragioni, di continuare a fornire i servizi di accoglienza, ad affrontare le difficoltà anche economiche del nuovo capitolato?
Per quello che conosco in Toscana ci sono stati due tipi di risposte. Da una parte alcuni enti gestori sono riusciti ad utilizzare fondi propri per sopperire alla mancanza dei finanziamenti ministeriali. Dall’altra i grossi enti gestori che hanno deciso di partecipare hanno giocato in qualche modo appoggiandosi ad altri progetti e altri servizi, come ad esempio i corsi di lingua, che gestiscono indipendentemente dai servizi di accoglienza. Detto questo ci sono anche soggetti che hanno partecipato alla gara aderendo veramente al capitolato e che quindi questi servizi non li forniscono.

Prima hai accennato a trasferimenti anche in altre regioni, ci spieghi meglio?
Noi abbiamo lavorato molto, anche con la prefettura, per garantire che i trasferimenti avvenissero non solo nella stessa regione ma nella stessa città. In modo da garantire che fossero semplici cambi di indirizzo e non trasferimenti. Però quello che è successo in tutt’Italia, e non solo in Toscana, è stato che dove non c’è stato modo di fare questo lavoro di negoziazione ci sono stati trasferimenti anche in altre regioni.

Il fenomeno dei bandi deserti ci risulta essere stato presente in maniera particolare in Toscana ed Emilia Romagna, secondo te questo deriva da una particolarità di queste regioni?
Si tratta di territori in cui il terzo settore ha una forte strutturazione, una forte dinamicità, una lunga tradizione. E sicuramente anche l’abitudine a schierarsi su questioni non strettamente operative ma anche di tipo più politico. Ma la ragione per cui, quantomeno in Toscana, così tanti bandi sono andati deserti è il fatto che si era davvero radicata la cosiddetta accoglienza diffusa. La Toscana rivendica fin dal 2011 questo modello. Qui infatti il panorama degli enti gestori era estremamente frammentato e a parte alcuni grandi gruppi, c’erano davvero una miriade di piccoli enti gestori con piccoli numeri in accoglienza e poco personale impiegato. È evidente che in queste realtà la riconversione del personale era facilitata dai piccoli numeri.

A quanto ci risulta a Firenze nonostante la pubblicazione di diversi bandi la prefettura è riuscita ad assegnare solo una piccola parte dei posti che ritiene necessari a soddisfare i bisogni del territorio. Che idea ti sei fatta dell’atteggiamento della prefettura di Firenze? C’è stato nel corso di questi mesi un dialogo con gli enti del terzo settore?
Un dialogo direi di no. Ci sono state delle comunicazioni abbastanza unidirezionali. Noi come Oxfam Italia ci siamo tirati indietro dalla contrattazione già ad aprile 2019 quando è arrivata dalla prefettura una richiesta di proroga, ma alle nuove condizioni. Ovviamente tutti si sono rifiutati e noi abbiamo proprio deciso di non partecipare ai nuovi bandi.

Quello che sappiamo dagli altri enti gestori è che c’è stata una proroga fino al 30 giugno con le vecchie regole. Poi con la successiva proroga al 31 ottobre sono state mantenute sempre le vecchie regole, e quindi i famosi 35 euro, ma con una decurtazione del 15%.

La regione Toscana ha messo a bando 4 milioni di euro da destinare come cofinanziamento a enti pubblici o del terzo settore per progetti destinati a persone straniere rimaste prive di reti di inserimento sociale. Qual è il vostro parere su questa misura? Secondo voi potrebbe convincere alcuni gestori a tornare nel sistema di accoglienza?
Non so se potrebbe convincere gestori che sono usciti a tornare nel sistema di accoglienza, ma senza dubbio è stata un’iniziativa importante perché ha dato nuova linfa a quelle associazioni che avevano comunque deciso di partecipare, ma che non avrebbero potuto garantire servizi per l’integrazione.

Visto che non è possibile andare avanti tramite proroghe all’infinito se, come sembra ormai chiaro, le prefetture non dovessero riuscire ad assegnare tutti i posti in accoglienza, quali alternative rimangono?
L’unico scenario che mi sembra possibile è il trasferimento delle persone che non trovano posto in accoglienza, ma che ne hanno diritto. Non vedo altra soluzione al trasferimento delle persone in regioni in cui c’è stata maggiore adesione ai bandi. Ricordiamoci che la situazione di cui stiamo parlando è avvenuta in un contesto particolare che è quello del sostanziale crollo degli sbarchi e quindi di una minore pressione sul sistema di accoglienza che fa sì che sul territorio nazionale ci siano ancora molti posti liberi.

In sintesi

Nonostante le evidenti difficoltà di affrontare un tema complesso come quello dell’accoglienza nella pressoché totale mancanza di dati ufficiali e scontato il rifiuto del Ministero dell’Interno a fornire le informazioni per cui abbiamo fatto richiesta di accesso, è stato comunque possibile definire alcuni punti fermi.

L’analisi di dettaglio di alcune aree dove si sono manifestati problemi nell’assegnazione dei bandi, sia attraverso i dati che grazie all’esperienza di chi in questo settore agisce sul campo, delinea infatti una situazione critica.

Se fino a questo momento le difficoltà a coprire i fabbisogni non si sono trasformate in emergenza è stato principalmente per due ragioni. In primo luogo il calo consistente degli arrivi; in secondo luogo grazie alle proroghe con cui le prefetture hanno permesso che l’accoglienza proseguisse, spesso con le regole in vigore prima del decreto sicurezza.

Una totale assenza di programmazione.

Il primo punto evidenzia una politica di breve respiro che si affida alla convinzione che lo scenario rimanga costante e il numero degli sbarchi rimanga limitato. Senza alcuna considerazione della governance multilivello, del ruolo del Tavolo di coordinamento nazionale (anche nell’interlocuzione con il terzo settore) e della necessità di distribuire i migranti sul territorio in maniera proporzionata e programmata.

Le prefetture sono strette tra regole inapplicabili e l’obbligo di garantire il servizio.

Sul secondo punto invece esistono dei limiti legali. Non è possibile infatti prorogare un contratto pubblico in maniera indefinita. Come dovranno comportarsi allora le prefetture, in assenza di indicazioni del governo, per rispettare le leggi dello stato quando anche questa possibilità di procrastinare i contratti verrà meno?

Questo senza contare i danni che già sono stati fatti. La perdita dei posti di lavoro degli operatori, che oltre al problema occupazionale costituisce una dispersione di professionalità che si sono sviluppate in anni di lavoro e impegno, è solo uno tra gli esempi rilevanti. Un aspetto questo che colpisce in particolare i territori più fragili e con più bisogno di occupazione. Costringendo il terzo settore a scelte comunque dolorose che, anche quando si risolvono in una prosecuzione dei servizi, comportano di solito una riduzione del personale.

I servizi di accoglienza vengono interrotti senza considerare gli effetti sociali per i migranti e le comunità ospitanti.

Inoltre la chiusura dei piccoli centri comporta per i rifugiati e i richiedenti asilo l’interruzione dei percorsi d'inserimento sociale e lavorativo. Magari con il trasferimento in città e paesi diversi e distanti in assenza di quegli stessi servizi d'inclusione. Questo nel migliore dei casi può voler dire un allungamento dei tempi di integrazione. Ritardando colpevolmente il momento in cui ciascuna di queste persone può diventare un soggetto economicamente indipendente e produttivo per la società. Oppure, in alcuni casi, può anche voler dire l’abbandono di ogni tentativo di integrazione e quindi la marginalità e la strada, con tutti i costi sociali connessi.

Come vedremo meglio nella terza parte di questo approfondimento, se i piccoli centri chiudono quelli grandi rimangono, almeno là dove già erano presenti. Eppure è proprio nei grandi centri che negli scorsi anni si sono manifestate le peggiori esperienze per i migranti e le comunità locali.

 

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