Perché l’elezione dei presidenti delle camere è così importante XVIII legislatura

Sarà l’atto di apertura della XVIII legislatura. Un passaggio fondamentale, che però non necessariamente preluderà alla formazione di una coalizione di governo.

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Il prossimo 23 marzo camera e senato si riuniranno per la seduta di avvio della nuova legislatura. Uno dei primi punti all’ordine del giorno sarà l’elezione dei rispettivi presidenti. Vediamo come saranno eletti e perché si tratta di un passaggio così importante.

Come si svolge la votazione

Ogni camera elegge il proprio presidente tra uno dei suoi membri: solo un senatore può diventare presidente del senato e solo un deputato può essere eletto presidente della camera. Il voto per eleggere coloro che presiederanno i due rami del parlamento avviene a scrutinio segreto. Sia a Montecitorio che a Palazzo Madama i parlamentari votano in una cabina posta sotto la presidenza, e poi depositano la scheda nell’urna. Qui finiscono le analogie tra le due camere: l’iter per eleggere i presidenti è infatti radicalmente diverso.

Al senato diventa presidente chi, nella prima votazione, riceve il voto della maggioranza assoluta dei membri. Se nessuno raggiunge questa soglia il quorum si abbassa nelle successive votazioni. In caso di stallo, la quarta votazione è sempre decisiva: si va al ballottaggio tra i due candidati più votati e vince quello che riceve un voto in più dell’altro.

L’elezione è invece più complessa alla camera, dove sono previsti dei quorum iniziali molto più alti.

Al primo scrutinio viene eletto chi riceve il voto di 2/3 dei membri (420 deputati). Se nessuno raggiunge questa cifra, al secondo e terzo scrutinio il quorum si abbassa a 2/3 dei votanti. Se ancora nessuno è eletto, dal quarto scrutinio in poi basta la maggioranza assoluta dei voti, e il voto va avanti a oltranza. Vai a "Come si elegge il presidente della camera"

Ma la vera differenza alla camera la fa l’assenza del ballottaggio: le votazioni per eleggere il presidente possono anche andare avanti all’infinito se non emerge un candidato con la maggioranza assoluta dei voti. In un parlamento come quello attuale, non essendoci uno schieramento autosufficiente, significa che servono degli accordi tra le forze politiche. Per questa ragione alcuni commentatori hanno dedotto che la maggioranza che si realizzerà sulle presidenze delle camere anticiperà una possibile coalizione di governo. Ma è necessariamente così?

Può essere un’anticipazione della maggioranza di governo?

Chi assimila l’elezione dei presidenti alla composizione dei governi probabilmente ragiona in base alla logica maggioritaria della seconda repubblica. Dal 1994 in effetti le due cariche sono spesso rientrate di fatto nella distribuzione degli incarichi tra le forze politiche componenti la maggioranza di governo. Ad esempio la presidenza della camera tra 2001 e 2013 è sempre stata ricoperta dal capo di un partito minore della maggioranza (in particolare tra quelli che non esprimevano il presidente del consiglio). È quello che è successo con Casini nel 2001 (leader del Ccd e poi dell’Udc), con Bertinotti nel 2006 (segretario del Prc) e con Fini (An-Pdl) nel 2008. In tanti casi l’elezione è stata frutto di un vero e proprio scontro tra i due schieramenti politici, soprattutto quando i numeri erano più precari.

I presidenti di camera e senato non sono ruoli di governo: sono i garanti del processo legislativo.

In realtà questa dinamica è proprio quello che si voleva evitare con la previsione dei quorum rafforzati. I presidenti di camera e senato sono i garanti del processo legislativo, ed è necessario che abbiano la legittimazione dell’intero parlamento. Storicamente è vero che i presidenti delle camere sono quasi sempre stati esponenti di un partito di maggioranza, se si esclude il periodo tra 1976 e il 1992 in cui la presidenza di Montecitorio per prassi andava all’opposizione. Ma questo non significa che sulla loro elezione non si realizzasse spesso la convergenza di un arco di forze più ampio della sola maggioranza.

Cosa indicano i precedenti

Due dati mostrano chiaramente che in passato l’elezione dei presidenti avveniva in una logica più consensuale. In primo luogo il numero di scrutini necessari per eleggere il presidente, cresciuto in entrambi i rami dalla fine degli anni ’80. Fino al 1987 infatti i presidenti delle aule sono sempre stati eletti alla prima votazione, anche se va detto che a Montecitorio solo dal 1971 il regolamento prevede il quorum dei 2/3.

La decisione di innalzare il quorum era dettata proprio dalla volontà di trovare accordi ancora più ampi tra le forze in parlamento. Infatti anche nei 15 anni successivi (1972-1987) è sempre stato comunque sufficiente un solo voto in entrambi i rami. Questa consuetudine si è interrotta con l’elezione di Giovanni Malagodi (Pli), diventato presidente del senato al terzo scrutinio, il 22 aprile 1987.

FONTE: elaborazione openpolis su dati camera e senato
(ultimo aggiornamento: lunedì 26 Marzo 2018)

Un altro dato che racconta come l'elezione dei presidenti fosse una scelta maggiormente consensuale prima della seconda repubblica è la percentuale di voti raccolti dai presidenti eletti tra il 1948 e il 2013.

FONTE: elaborazione openpolis su dati camera
(ultimo aggiornamento: lunedì 19 Marzo 2018)

Alla camera, anche prima della riforma regolamentare, poteva succedere che il presidente fosse sostenuto da quasi tutta l'aula, come avvenuto nel 1963 con l'elezione di Brunetto Bucciarelli Ducci (Dc). Il deputato democristiano diventò presidente con 546 voti su 587 (il 93%) e con l'appoggio del principale partito di opposizione (Pci). Una scelta bipartisan che fu giustificata in virtù della sua autorevolezza:

il candidato dava tutte le necessarie garanzie di competenza, di prestigio e di imparzialità

La logica consensuale nell'elezione del presidente di Montecitorio divenne in seguito vera e propria prassi con la scelta di affidare la presidenza ad un esponente del Pci. Dapprima con l'elezione di Pietro Ingrao nel 1976 (80% dei voti), di Nilde Iotti nelle tre volte successive (1979, 1983, 1987) e in seguito di Giorgio Napolitano (1992 con il 63%). Questa è stata l'ultima volta in cui un presidente della camera è stato eletto con oltre il 60% dei voti. Dal 1994 la quota di consenso raccolto è sostanzialmente coincisa con la sola coalizione di maggioranza.

Il passaggio dalla logica consensuale a quella maggioritaria è ancora più visibile al senato.

FONTE: elaborazione openpolis su dati senato
(ultimo aggiornamento: lunedì 19 Marzo 2018)

Nel 1987 Palazzo Madama elesse Spadolini (Pri) con il 78% dei voti, poi rieletto nel 1992 con il 59%. Ma nel 1994, con l'inizio della seconda repubblica, si consuma uno scontro senza precedenti. Il centrodestra, vincitore delle prime elezioni con il maggioritario, propone il nome Carlo Luigi Scognamiglio Pasini (Udc-Fi), mentre le opposizioni premono per un nuovo mandato a Spadolini come figura di garanzia. Per la prima volta nella storia repubblicana si arriva al ballottaggio, dove il candidato della maggioranza di governo prevale con un solo voto di scarto sull'avversario (162 a 161). Da allora l'elezione dei presidenti diventa parte delle dinamiche del sistema maggioritario.

Non è scontata la coincidenza tra la maggioranza per eleggere i presidenti delle camere e quella di governo.

Nell'attuale scenario tripolare è finito il tempo in cui le cariche apicali dei due rami del parlamento potevano rientrare negli accordi interni a una sola coalizione. Prova ne è stata la scorsa elezione (2013) dei presidenti di camera e senato, Boldrini e Grasso. Questa è avvenuta in una logica pienamente da seconda repubblica: il vertice del senato al partito maggiore (Pd) e quello della camera all'alleato minore della coalizione (Sel). Assetto coerente con un successivo governo di centrosinistra, come era avvenuto nei due decenni precedenti. Ma, come è noto, il tentativo di formare un governo di minoranza guidato da Pier Luigi Bersani è naufragato, aprendo la strada alle larghe intese tra Pd, Pdl e centristi.

Governi fragili, presidenti delle camere stabili

Il precedente del 2013 apre un'altra riflessione: attenzione a considerare l'elezione dei presidenti delle camere come l'anticipo di una maggioranza di governo. Può succedere che lo schema di elezione dei vertici delle due camere sia radicalmente differente da quello per la formazione dell'esecutivo, come avvenuto nella scorsa legislatura.

Oppure può accadere che i governi e la maggioranza politica in parlamento cambino in corso di legislatura, mentre le presidenze delle camere restano le stesse. Nel panorama politico italiano infatti, all'elevata variabilità degli esecutivi si contrappone la stabilità delle due presidenze, che durano generalmente per l'intera legislatura (nella prima repubblica uno stesso presidente veniva rieletto anche per più legislature consecutive).

14 anni la durata in carica di Cesare Merzagora come presidente del senato (1953-1967)

La previsione di una carica così stabile è dovuta al ruolo di garanzia che i due presidenti ricoprono nel nostro sistema parlamentare. Sono i primi ad essere consultati dal presidente della repubblica in caso di crisi di governo. Una funzione così delicata che richiede autonomia dal circuito fiduciario maggioranza-opposizione (tanto è vero che per prassi non votano i provvedimenti). Proprio per questo è importante che siano persone che godono di autorevolezza presso tutte le forze politiche, a prescindere dalla maggioranza che si formerà sulla loro elezione.

Foto credit: Flickr Palazzo Chigi - Licenza

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