di Janine Berg, Senior Economist presso International Labour Office (ILO) e
Valerio De Stefano, BOFZAP Professore di Diritto del Lavoro all’ Università di Lovanio
berg@ilo.org | destefano@ilo.org

Le opinioni espresse in questo opuscolo sono degli autori e non riflettono necessariamente quelle dell‘ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro).

Non ci possono essere società giuste ed eguali senza leggi e politiche che proteggano i lavoratori. Buona istruzione e l’affinamento delle proprie capacità possono aiutare a districarsi nel mercato del lavoro, ma non tutti possiamo essere banchieri, avvocati o medici. Quelli di taxisti, ciclocorrieri, grafici, trascrittori audio sono tutti lavori fondamentali al funzionamento di città e imprese. Però, se vogliamo che questi lavoratori abbiano un salario equo e possano beneficiare del buon andamento dell’economia in cui operano, il loro lavoro va regolamentato.

Grazie a internet e agli smartphone l’economia delle piattaforme ha riconfigurato il lavoro quotidiano di tassisti, grafici e impiegati, rendendo queste professioni sempre più simili a lavori occasionali, e prive, per molte persone, delle protezioni offerte dalle leggi nazionali.

Parole d’ordine come “favore”, “corsa” e “mansione” sono state utilizzate per celare la natura del lavoro, rappresentato come se fosse svolto in maniera amatoriale, senza relazione alcuna con una vera professione.

Alternativamente, il lavoro nell’economia di piattaforma viene anche presentato come un nuovo movimento di “microimprenditori”, che raccolgono il destino nelle proprie mani lavorando dove e come desiderano, senza dover rispondere a nessuno e con la possibilità di espandere continuamente la propria attività.

La realtà, però, è ben diversa. Un sondaggio svolto dall’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) su due importanti piattaforme di microtasking evidenzia, per esempio, il modo in cui per il 40% dei partecipanti il crowdworking costituisca la principale fonte di reddito; si tratta di persone che lavorano sulle piattaforme in media 30 ore ogni settimana e che, in molti casi, vi si affidano da diversi anni pur di lavorare.

80% dei crowdworker negli Stati Uniti guadagna meno del reddito minimo stabilito a livello federale.

Una delle caratteristiche più problematiche del crowdwork è il fatto che condanna i lavoratori ad una costante ricerca di impieghi, a volte così brevi da durare giusto il tempo necessario a percorrere qualche chilometro in macchina oppure i dieci minuti necessari a taggare (categorizzare con una parola chiave, n.d.t.) foto online. Di conseguenza chi lavora per Amazon Mechanical Turk, fa l’autista per Uber o l’illustratore su qualche piattaforma online di design, deve continuamente monitorare il proprio schermo, o smartphone, alla ricerca della prossima opportunità di lavoro. Tramite il sondaggio dell’ILO, abbiamo scoperto che in media ogni lavoratore passa circa 18 minuti a cercare lavoro per ogni ora passata a lavorare.

Anche quando le mansioni durano diverse ore, o qualche giorno, la ricerca di nuovi lavori non smette mai. Il 90% dei lavoratori del sondaggio segnalano che vorrebbero lavorare di più di quanto già non facciano, ma la poca offerta ed i salari bassi non glielo permettono. Molti di loro, però, lavorano già molto: il 40% degli intervistati segnala di lavorare regolarmente 7 giorni a settimana, ed il 50% indica di aver lavorato più di 10 ore almeno per un giorno nello scorso mese. A causa dei salari bassi e della necessità di lavorare,  chi lavora su piattaforma passa molto tempo online.

Nonostante siano classificati come liberi professionisti, i crowdworker raramente hanno le stesse libertà dei lavoratori veramente autonomi.

Le piattaforme mediano ampiamente sia le transazioni che intrattengono con i propri lavoratori che quelle tra clienti e lavoratori. Spesso sono le piattaforme a determinare prezzo, termini e condizioni del servizio, oppure permettono di definire questi ultimi ai loro clienti ma non al lavoratore. La piattaforma può definire l’orario o i dettagli del lavoro, compreso l’obbligo di indossare uniformi, di utilizzare determinati strumenti, o trattare i clienti in una determinata maniera. Molte piattaforme hanno sistemi che permettono ai clienti di valutare i lavoratori e che possono essere utilizzati per limitare l’accesso alle mansioni di chi ottiene un punteggio più basso, nonché per escluderlo dal sistema. La quantità di istruzioni e disciplina che i clienti e le piattaforme impongono ai lavoratori in molti casi è pari al grado di controllo normalmente riservato ai datori di lavoro – e che normalmente è accompagnato da forme di tutela del lavoro.

Il crowdworking si riferisce solitamente ad attività lavorative che implicano attraverso una piattaforma online il completamento di una serie di mansioni, spesso estremamente parcellizzate (microtasking). Vai a "Come le piattaforme digitali organizzano il lavoro"

Più di un secolo fa, si cominciarono ad istituire leggi sul lavoro in vari paesi del mondo. Esse avevano lo scopo di proteggere i lavoratori in quello che era riconosciuto come una relazione diseguale di scambio tra lavoro e capitale, ma davano anche l’autorità agli imprenditori di organizzare e dirigere il lavoro dei propri dipendenti. Anche se il mondo del lavoro è cambiato da quando le prime leggi sul lavoro furono promulgate, più di cento anni fa, le ragioni fondamentali per l’esistenza di forme di protezione del lavoro— come garantire posti di lavoro sicuri e sani, dare una voce ai lavoratori, e fornire protezioni minime in termini di orario di lavoro e salario—rimangono valide.

Le protezioni garantite dalle leggi sul lavoro sono fondamentali per arrestare la crescente diseguaglianza che ha assediato molti paesi industrializzati negli ultimi decenni.

Certamente, un contributo importante alla diseguaglianza in molti paesi industrializzati è stato l’aumento di contratti di lavoro atipici come subappalti, contratti a termine, a zero ore e false partite IVA. Con poche eccezioni, questi lavori pagano meno e sono più instabili. Il gig work è semplicemente un’aggiunta alla gamma del lavoro occasionale.

La realtà non deve necessariamente essere questa: la stessa tecnologia che ha permesso la parcellizzazione e la distribuzione del lavoro alla massa può anche essere utilizzata per regolamentarlo e garantire protezioni ai lavoratori. La tecnologia può monitorare quando i lavoratori stanno lavorando, quando stanno cercando lavoro, e quando sono in pausa. Per esempio Upwork, una piattaforma online per lavoratori freelance che può monitorare i lavoratori registrando la pressione dei tasti o i click del mouse e catturando screenshot casuali, offre ai propri clienti la possibilità di pagare a ore. Uber richiede ai conducenti di tenere l’app accesa per localizzare i loro spostamenti, compresi i momenti di inattività. Questa stessa tecnologia può essere utilizzata per far sì che i lavoratori guadagnino almeno un salario minimo o, idealmente, per regolamentare il salario convenuto collettivamente tra i lavoratori e la piattaforma. Se ci fossero delle regole per la tutela del lavoro le piattaforme sarebbero incentivate e riorganizzarlo e a limitare le necessità di ricerca di nuovi incarichi. Le tecnologie e una migliore organizzazione possono contribuire a minimizzare i tempi di ricerca, migliorando l’efficienza dell’intero sistema. Le stesse tecnologie possono anche essere utilizzate per facilitare il pagamento dei contributi per la previdenza sociale.

A meno che i governi non intervengano nel regolamentare l’economia di piattaforma, il “futuro del lavoro” sarà caratterizzato da scarsissime protezioni e crescenti diseguaglianze. Conosciamo i meccanismi per regolamentare la gig economy; tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la volontà di farlo.

Foto CreditIrene Beltrame

Traduzione: Valentina Bazzarin, Federico PiovesanAlberto Valz Gris

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