In automobile attraversando il confine tra Ucraina e Ungheria, o prendendo un bus che porta in Italia. A piedi dall’Afghanistan fino in Bosnia Herzegovina, ai confini dell’Unione europea. Su una barca fino alle coste italiane, dopo aver attraversato il Mediterraneo. O tentando di scavalcare un muro in Marocco, oltre il quale si apre il sogno dell’Europa.

Sono alcune delle tratte oggi al centro del fenomeno migratorio nel vecchio continente. Migliaia di persone che incrociano i loro destini con filo spinato, muri, naufragi, dogane, impronte digitali e violenze.

L’Italia a sud e l’Ungheria a est sono tra le principali porte d’accesso in Europa.

Le migrazioni esistono da quando esiste l’umanità. Si tratta di un fenomeno mai realmente arrestato dalle azioni umane o dalle politiche dei governi. Negli ultimi anni i flussi al centro delle cronache europee sono stati principalmente due: gli spostamenti di persone provenienti dai paesi africani del nord e del golfo di Guinea verso il sud Europa, e quelli dei migranti provenienti dalle nazioni del Medio Oriente e dell’Asia centrale verso l’est Europa. E due, più di altri, sono tra i principali paesi interessati da queste due rotte: l’Italia a sud e l’Ungheria a est. Due nazioni diverse, protagoniste di culture e storie differenti, ma da anni accomunate dalle sfide poste dal fenomeno migratorio e dalle lacune dell’Unione europea nel gestirlo.

A tutto questo si è aggiunto, poi, l’imponente esodo di ucraine e ucraini in seguito all’invasione da parte della Federazione Russa, che ha visto nei primi 6 mesi di conflitto oltre 7 milioni di persone fuggire dalla guerra. Come vedremo in seguito, le autorità europee hanno gestito questo fenomeno in modo nettamente diverso, mostrando un atteggiamento di apertura e accoglienza che a oggi rappresenta però solo una virtuosa eccezione.

A quasi 10 anni dall’inizio della “crisi europea dei migranti” è chiaro che l’Unione europea sul fenomeno ha deciso di non decidere, non si è riformata in base alle esigenze dei tempi, abbandonando al proprio destino milioni di persone, lasciando il tema per lo più a politiche nazionali.

Le lacune nelle politiche europee hanno favorito i partiti anti-immigrazione.

Questo atteggiamento irresponsabile ha prodotto quasi ovunque un’ostilità generalizzata delle popolazioni nei confronti dei migranti, con il conseguente aumento del consenso per i partiti anti-immigrazione. I quali, una volta al governo, hanno potuto realizzare politiche repressive e discriminatorie, soprattutto nei paesi di frontiera, dove cittadini e istituzioni si sono sentiti abbandonati dalle istituzioni comunitarie.

È accaduto in Ungheria e, in parte, anche in Italia, dove questi processi sociali e politici rischiano di essere portati a compimento a partire dalla prossima legislatura, se verranno rispettate le previsioni dei sondaggi sulle elezioni del 25 settembre. Questi ultimi, infatti, danno per favorito il partito della destra sovranista Fratelli d’Italia, la cui leader Giorgia Meloni ha mostrato più volte interesse nei riguardi del “modello Orbán” sull’immigrazione.

Ungheria e Italia porte d’Europa a est e sud

Quella che a livello giornalistico viene conosciuta come “crisi europea dei migranti” ha avuto inizio nel 2013. Sembra passato molto tempo da quando un numero sempre crescente di persone ha iniziato a muoversi, a piedi o con mezzi di fortuna, in cerca di asilo in Europa. L’anno che segna la svolta è il 2015.

In quei mesi, secondo l’Ue quasi due milioni di persone si sono trovate ai confini del continente, provenienti da zone di guerra come la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan, ma anche la Libia, il Mali o il Burkina Faso. Parliamo di viaggi molto pericolosi.

1,8 milioni di persone sono migrate verso l’Europa nel 2015, secondo l’Ue.

Si stima che in quel periodo siano morte almeno 1.200 persone in sole cinque imbarcazioni affondate nel mar Mediterraneo. Viaggi che spesso portano con sé sofferenza e violazioni di diritti fondamentali. È in questo contesto che, come vedremo in avanti, sempre nel 2015 inizia la costruzione del “muro di Orbán” sul confine serbo-ungherese.

Oggi i dati raccontano di cifre più modeste in relazione agli arrivi. Non perché si parta di meno, si muoia di meno o perché siano state avviate politiche pubbliche di riequilibrio socio-economico nei paesi di provenienza, ma perché si sono aggravate negli anni politiche repressive e contenitive del fenomeno migratorio, fino a farle passare come consuete in diversi paesi Ue.

Inoltre si tenta, a livello comunitario, di limitare gli arrivi esternalizzando le frontiere al di fuori dell’Unione, attraverso accordi onerosi come quello siglato tra Ue e Turchia nel 2016. Intese che hanno l’obiettivo di tenere il problema lontano dagli occhi e dal cuore dei popoli europei. Come il memorandum con la Libia firmato nel 2017, le recinzioni che separano il territorio marocchino dalle exclave spagnole Ceuta e Melilla, o i campi di detenzione sulle isole greche.

Le politiche migratorie in Ue
In Europa è ancora in vigore il trattato di Dublino, firmato nel 1990 nella capitale irlandese. Si tratta di un regolamento secondo il quale le responsabilità di esaminare le domande di asilo ricadono, salvo alcune eccezioni, sullo stato membro in cui il migrante che richiede asilo è entrato, varcando le frontiere in modo irregolare. Senza quindi prevedere alcuna responsabilità per gli altri paesi Ue. Questo meccanismo crea inevitabilmente una situazione iniqua in Europa, perché l’ospitalità e le richieste di asilo ricadono principalmente sui primi paesi d’approdo, come l’Italia (nel caso della rotta mediterranea) e l’Ungheria (nel caso della rotta balcanica), che si vedono inoltre ritornare i migranti che si spostano in altri paesi europei dopo essere passati dai loro territori. Nonostante sia stato modificato prima nel 2003 e poi nel 2013, l’impianto sostanziale del trattato è ancora oggi vigente. E si affianca alle politiche di respingimento alle frontiere esterne dell’Ue, che contraddicono nei fatti i valori su cui è fondata l’Unione, primo fra tutti la difesa della dignità e dei diritti umani. In questo senso Bruxelles negli anni ha stretto accordi con i regimi nordafricani per la rotta mediterranea e con quello turco per la rotta balcanica, affinché trattengano nei loro territori i migranti che cercano di raggiungere l’Europa. L’obiettivo è ridurre gli arrivi, marginalizzando il problema dal punto di vista dell’impatto pubblico. Con la conseguenza di condannare migliaia di esseri umani alla detenzione nelle carceri libiche o alle violenze nei rimpatri al confine turco, come denunciato da numerose inchieste giornalistiche e da diverse organizzazioni per i diritti umani. Un’ulteriore forte contraddizione delle istituzioni comunitarie è emersa di recente, a fronte della crisi dei rifugiati ucraini. È risultata infatti evidente la disparità di trattamento dei profughi di guerra ucraini rispetto a quelli provenienti da altri paesi in conflitto. Per i primi, infatti, è stata attivata una direttiva che permette agli ucraini di circolare in Europa e di richiedere con facilità una forma di protezione, al contrario negata a centinaia di migliaia di persone provenienti da altri paesi in guerra.

«Non vogliamo diventare popoli di razza mista»

Le rispettive posizioni geografiche di Italia e Ungheria acquistano rilevanza quando si parla di migrazioni. Nell’ultimo decennio questo ha certamente contribuito a una percezione diversa delle persone straniere da parte delle comunità autoctone, complici anche le polarizzazioni politiche sul tema e le narrazioni mediatiche a riguardo.

Quanto si stanno realmente «mescolando» i popoli italiano e ungherese con le comunità straniere?

Se in Italia gli sbarchi di migranti sulle coste meridionali sono calati dopo la cosiddetta “crisi dei rifugiati”, l’argomento continua a segnare l’agenda setting anche in vista delle elezioni politiche del 25 settembre, dove sono favoriti i partiti delle destre anti-immigrazione. Diversa la situazione per l’Ungheria, dove il governo guidato da Viktor Orbán da anni ha fatto della difesa dei confini un cardine fondamentale della sua azione politica.

Nel paese magiaro l’atteggiamento è tra i più radicali in Europa, tanto che lo scorso luglio lo stesso Orbán ha fatto discutere con alcune sue dichiarazioni.

Siamo disposti a mescolarci gli uni con gli altri, ma non vogliamo diventare popoli di razza mista.

Una frase che ha causato le dimissioni della sua consigliera personale Zsuzsa Hegedüs, che ha accostato il premier al ministro nazista Joseph Goebbels, nonostante abbia ritirato queste affermazioni pochi giorni dopo.

Nel solo 2011 in Italia sono entrati oltre 385mila nuovi immigrati. Nell’anno 2020, invece, 247mila. Il trend è inverso in Ungheria, dove nel 2011 erano meno di 28mila i nuovi ingressi, a fronte di più di 75mila nel 2020. Per capire la portata della presenza di migranti nei due paesi, è necessario relazionare questi dati alla popolazione residente. Gli stranieri entrati in Italia nel 2020 erano 42 ogni 10mila abitanti, una cifra diminuita di 23 unità rispetto al 2011. In Ungheria invece, sempre nel 2020, risultavano 77 gli immigrati ogni 10mila residenti. In questo caso, la cifra è aumentata nel corso del decennio (+49).

Non esiste alcuna “emergenza migranti” né in Italia né in Ungheria.

Al di là delle variazioni che si sono susseguite negli anni, sicuramente un aspetto da sottolineare è la sproporzione che c’è tra questi numeri e la comunicazione emergenziale che viene diffusa in entrambi i paesi. Piuttosto si è di fronte a un fenomeno strutturato che va sistematizzato e organizzato, non stigmatizzato in nome di fantomatici «teoremi dell’invasione» indubbiamente smentiti dai dati.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat
(ultimo aggiornamento: lunedì 11 Luglio 2022)

Una questione a parte invece merita la questione ucraina. A inizio marzo è stata attivata una direttiva europea risalente a oltre vent'anni fa (la 55/2001), allora pensata per l'esodo proveniente dai Balcani meridionali in guerra. Secondo questa disposizione, le persone che fuggono dal conflitto possono godere di una protezione temporanea in Ue, uno status simile a quello del rifugiato, in qualsiasi paese membro e per un anno dall'ingresso, rinnovabile per altri due.

Le differenze tra Italia e Ungheria non riguardano infatti l’accoglienza degli ucraini, tutto sommato omogenea tra i due paesi e in linea con le indicazioni comunitarie, ma soprattutto la collocazione geografica e quindi la composizione socio-economica dei profughi che decidono di rimanere nell’uno o nell’altro paese.

L’Ungheria infatti confina con l’Ucraina, il che la rende uno dei principali punti di passaggio della popolazione ucraina verso ovest. Da marzo a luglio circa un milione di ucraini sono entrati in Ungheria, anche se poco meno di 30mila hanno fatto domanda di protezione temporanea nel paese. Questo suggerisce come la nazione magiara sia essenzialmente un luogo di passaggio verso altri stati dell’Unione.

In Italia la situazione è diametralmente opposta: delle 157mila persone entrate dal 24 febbraio in poi, 148mila (il 94%) ha chiesto di accedere alla protezione temporanea. In questo caso, i dati ci raccontano di un’immigrazione più stanziale.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Protezione civile e Unhcr
(ultimo aggiornamento: martedì 26 Luglio 2022)

Come emerge dal grafico, il periodo di maggior flusso di profughi ucraini sia in Italia che in Ungheria è stato nel mese di marzo, nelle prime settimane che hanno seguito l’invasione russa. Dopo un calo e un assestamento in primavera e all’inizio dell’estate, nel mese di luglio le cifre degli ingressi nei due paesi sono tornate leggermente a salire, tuttavia rimanendo lontane dai picchi dell’inverno.

Per gli ucraini l'Ungheria è un luogo di passaggio, l'Italia di approdo.

Non sono disponibili dati ufficiali sulla durata della permanenza dei profughi nelle due nazioni, ma la nostra indagine sul campo conferma quanto suggeriscono i dati sulle domande di protezione temporanea nei due paesi: l’Ungheria è un luogo per molti di passaggio, dove le persone stazionano pochi giorni e a volte addirittura poche ore, prima di dirigersi a ovest. L’Italia, invece, è un luogo di approdo, dove molti rifugiati arrivano attraverso una rete di relazioni personali o familiari con la folta comunità ucraina (circa 235mila persone) che vive nel paese da diversi anni.

Questo progetto è stato sostenuto dal Collaborative and Investigative Journalism Initiative (Ciji). Sono stati supportati dieci reportage in tutta Europa, nell'ambito del grant sulle "cross-border stories", con l'obiettivo di raccontare storie transfrontaliere che vedessero la collaborazione tra team di diversi paesi europei. Hanno contribuito alla realizzazione di questo reportage i giornalisti freelance Irene Pepe e Aron Coceancig.

Foto: un richiedente asilo pakistano nel centro di accoglienza "Fraterna Tau" dell'Aquila, in Italia - Andrea Mancini / Openpolis

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