Sulla questione ucraina emergono alcune differenze nell’approccio all’emergenza in Ungheria e in Italia, soprattutto per le caratteristiche socio-economiche e culturali, oltre che per le intenzioni dei rifugiati e delle rifugiate ucraine che entrano nei rispettivi paesi. È evidente già all’ingresso nei grandi centri di accoglienza di Budapest, come il Bok, aperto a inizio marzo, dopo lo scoppio della guerra.

Lo visitiamo alla fine di luglio, in un periodo in cui i flussi di profughi sono molto inferiori rispetto all’inverno e alla primavera precedente. Si tratta di un’area all’interno di un grande centro sportivo, dove però la maggior parte dei rifugiati rimane in media non più di 24 ore.

Nel centro di accoglienza per ucraini più grande di Budapest si rimane solitamente poche ore.

C’è orgoglio negli occhi dei funzionari governativi che ci fanno visitare il centro. Si percepisce immediatamente che ci troviamo in un punto di passaggio e non di approdo. Ci sono persino sportelli informativi sui prossimi treni in partenza e una vera e propria sala di attesa, per chi passa solo qualche ora nel centro in attesa di un treno verso altri paesi europei, in primis la Germania, ma anche Polonia, Repubblica Ceca, Francia e Svizzera. Ci sono anche dei letti, per chi rimane per più di un giorno.

«Il 2 marzo abbiamo registrato 1.240 ingressi – afferma un membro della protezione civile – attualmente arrivano circa 150 persone al giorno». Tutti i presenti ci tengono a specificare che vengono accolte persone anche di nazionalità non ucraina, purché provenienti dal paese in guerra. Poco dopo, infatti, intercettiamo 4 studenti nigeriani arrivati a Budapest da Leopoli.

Da mesi il governo racconta di migliaia di ingressi, in primavera anche oltre 10mila al giorno. Ma per i dissidenti di Viktor Orbán è solo un modo di evidenziare lo spirito accogliente del paese, e tentare di riequilibrare le violenze e le criticità nella gestione dell’immigrazione.

«Ci sono due sistemi diversi», afferma Simon Ernő, portavoce della sede ungherese dell’agenzia dei rifugiati (Unhcr) dell’Onu. Le disposizioni attivate dalle istituzioni comunitarie per i profughi ucraini dovrebbero essere estese a tutti: «Invece qui in Ungheria, negli anni, abbiamo assistito a un inasprimento radicale e progressivo delle politiche migratorie». Tanto che, sotto pressione dell’Unione europea e dopo le condanne della Corte europea dei diritti umani, il governo è stato costretto a chiudere la contestata transit zone sul muro tra Serbia e Ungheria.

La legge sull’obbligo di richiesta di asilo nelle ambasciate estere e quella sui cosiddetti paesi terzi sicuri hanno fatto intendere che il governo non avrebbe fatto passi indietro sui migranti non ucraini.

Il dispositivo secondo cui non viene considerato meritevole di asilo chi prima dell’Ungheria attraversa un paese sicuro viene contestato anche dalla sezione ungherese del comitato Helsinki, tra le ong più attive nel paese, nonostante la repressione governativa nei confronti delle organizzazioni che aiutano i migranti: «Abbiamo evidenziato le contraddizioni del governo – evidenzia Zsolt Szekeres del comitato Helsinki – perché secondo questa logica anche i profughi ucraini che entrano dalla Romania dovrebbero essere respinti, perché provenienti da un paese sicuro».

Naturalmente il tema non è restringere il campo dei diritti della popolazione ucraina, legittimata a rifugiarsi e a fuggire dal conflitto, ma piuttosto estendere le disposizioni praticate per gli ucraini anche a tutti gli altri richiedenti asilo provenienti dai paesi extra-Ue, in Asia e in Africa, continenti nei quali spesso infuriano guerre, violenze e persecuzioni.

I dati che abbiamo analizzato vengono confermati sul campo da organizzazioni indipendenti e migranti.

Queste differenze emergono incontrando i migranti stessi. Inna, per esempio, è una giovane creativa ucraina che fino a fine febbraio lavorava a Kiev per un’agenzia di produzione video. Dopo l’invasione russa è stata direttamente la sua azienda a trasferire tutti i dipendenti, compresa lei, prima in Polonia e poi a Budapest: «Non so per quanto rimarrò qui», ci racconta in un bar vicino la stazione di Keleti, dove è arrivata alcuni mesi fa proveniente dalla Polonia. «Vorrei tornare un giorno nel mio Paese, ma non prima che finisca la guerra – aggiunge – sono originaria della regione di Donetsk, dove si trovano ora i miei genitori, che a differenza mia sostengono i russi».

«Con me qui in Ungheria sono stati tutti gentili, e a poche ore dalla domanda abbiamo ottenuto la protezione temporanea prevista in Europa per gli ucraini». Nei suoi occhi c’è il disagio di trovarsi in una situazione complessa, ma anche la certezza di sentirsi finalmente al sicuro.

Invece in Ungheria è transitato solo per poche ore e illegalmente Haseeb, 19enne pakistano, che 2 mesi fa ha richiesto asilo in Italia. La sua storia è molto diversa, perché ha conosciuto l’Europa dei muri e dei respingimenti. Viveva in una zona del Pakistan a forte presenza talebana, è scappato per sfuggire all’arruolamento obbligatorio. Un anno e mezzo a piedi attraverso il medio Oriente, poi la Bulgaria, la Serbia e infine in Unione europea fino all’Aquila, piccola cittadina a 100 km da Roma, dove è ospitato in un centro di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati.

Sono arrivato al confine tra Serbia e Ungheria lo scorso anno. Mi sono nascosto di notte nel bosco, poi sono riuscito a evitare i pattugliamenti e sono entrato in Ungheria, rimanendo nel paese solo un giorno. Giusto il tempo di andare in Austria.

Haseeb è stato abile e fortunato, ma gli oltre 300mila respingimenti al confine nell’ultimo anno e mezzo rappresentano un dato chiaro. 

L’eccezione dimostrata dalle istituzioni comunitarie e dai paesi membri nel caso dell’Ucraina potrebbe aprire un nuovo capitolo nelle politiche migratorie in Europa. Un capitolo contraddistinto da apertura, inclusione sociale e dalla gestione ordinaria e strutturata di un fenomeno che, con queste caratteristiche, ormai va avanti da quasi un decennio.

L’accoglienza degli ucraini potrebbe rappresentare un punto di svolta per le politiche migratorie in Ue.

Ma la direzione che si sta prendendo è opposta. Ai confini est del continente è Orbán ad aver fatto scuola, tanto che anche Polonia e Lituania hanno ultimato la costruzione di muri protettivi ai confini. Sul fronte meridionale gli sbarchi vengono visti come una perenne “emergenza”, nonostante il forte calo degli ultimi anni, tanto che il tema è argomento elettorale delle destre che potrebbero andare al governo già dal prossimo mese.

Quelle stesse destre ispirate proprio dal modello Orbán per la gestione del fenomeno migratorio. Mentre l’Europa, silente, resta a guardare.

Questo progetto è stato sostenuto dal Collaborative and Investigative Journalism Initiative (Ciji). Sono stati supportati dieci reportage in tutta Europa, nell’ambito del grant sulle “cross-border stories”, con l’obiettivo di raccontare storie transfrontaliere che vedessero la collaborazione tra team di diversi paesi europei. Hanno contribuito alla realizzazione di questo reportage i giornalisti freelance Irene Pepe e Aron Coceancig.

Foto: Inna Chubar, rifugiata ucraina, nella stazione di Budapest Keleti – Andrea Mancini / Openpolis

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