È ancora lontana la parità nella genitorialità #conibambini

Anche se è in crescita il ricorso ai congedi da parte dei padri, la quota di richiedenti uomini resta poco sopra il 20%. Ciò penalizza le donne, su cui finisce per gravare quasi interamente il lavoro di cura, ma ha effetti negativi anche per gli uomini.

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Storicamente, il lavoro di cura dei figli è gravato in modo quasi esclusivo sulle madri, mentre di fatto spesso non coinvolgeva i padri. Ancora oggi, sebbene alcuni progressi siano stati fatti e vi siano segnali di miglioramento, i carichi di cura familiare restano del tutto sproporzionati tra i generi.

24,9 il divario, in punti percentuali, tra la quota di donne 25-49 che dedicano oltre 50 ore alla settimana alla cura dei figli (32,1%) e i coetanei uomini (7,2%).

Un’impostazione che, come abbiamo avuto modo di raccontare in un approfondimento precedente, è penalizzante in primo luogo per le donne, che in un caso su 5 si trovano a lasciare il lavoro dopo la maternità. Tuttavia, anche i padri subiscono in qualche misura questo tipo di modelloche in molti casi li vincola a vivere una genitorialità ridotta rispetto alle madri.

Il congedo riservato ai padri, se preso, può promuovere una più equa distribuzione del lavoro di cura domestico e aiutare i padri a legare con i figli.

In Italia la strada sembra essere ancora lunga: nel 2022 i richiedenti dei congedi parentali sono stati uomini nel 22,1% dei casi, a fronte del 77,9% delle donne. Un dato in crescita rispetto al passato recente (18,8% nel 2017), ma ancora ben lontano da una genitorialità effettivamente paritaria. Un modello che invece potrebbe avere effetti positivi sulla vita dei bambini e su quella della famiglia.

Una genitorialità paritaria ha effetti positivi sulla vita di famiglie e bambini.

Nei paesi dove i padri fanno maggior uso del congedo parentale, è maggiore la loro presenza non solo nel percorso di crescita del bambino ma anche nei carichi di cura familiare, con conseguenze positive per lo sviluppo del minore e in termini di parità nella vita familiare. A ciò si aggiunga che i paesi con congedi più lunghi riservati ai padri tendono ad avere una quota maggiore di bambini sotto i tre anni nei centri per l’infanzia. Un tassello del percorso educativo del minore la cui importanza abbiamo già avuto modo di approfondire.

Dalla disparità nei lavori di cura ai gap occupazionali

Pochi dati, come quello del tempo dedicato alla cura dei figli, segnalano la persistenza culturale del modello cosiddetto della famiglia male breadwinner. Parliamo di quel modello familiare in cui i ruoli di genere sono rigidamente distinti tra il padre che lavora e la madre che si deve occupare in modo esclusivo dei compiti di cura familiare.

Tra 25 e 49 anni, le donne che in Italia dedicano oltre 50 ore a settimana alla cura dei figli sono circa un terzo del totale; tra gli uomini meno del 10%. Un quinto delle donne (20,5%) arriva a dedicare oltre 70 ore, contro il 6,3% dei padri. Al contrario, dedicano meno di 8 ore alla settimana ai figli il 17,6% degli uomini e l’8,7% delle donne.

32,1% delle donne tra 25 e 49 anni dedica oltre 50 ore alla cura dei figli in Italia. Per gli uomini della stessa età la quota scende al 7,2% (Eige).

L’incidenza di questo impegno ha dei risvolti anche sul mercato del lavoro: dopo la nascita di un figlio, una donna su 5 smette di lavorare. Con conseguenze negative, da vari punti di vista.

1 su 5 le donne che fuoriescono dal mercato del lavoro dopo la nascita del loro figlio.

In termini socioeconomici, l’Italia è uno dei paesi europei con la minore occupazione femminile tra madri e donne in generale. Incentivare il loro lavoro è essenziale innanzitutto per garantirne l’indipendenza economica, rompendo gli stereotipi. Ma è cruciale anche per ottenere il loro contributo allo sviluppo del paese, oltre che per arginare il rischio di povertà delle famiglie stesse. Nuclei più solidi economicamente possono essere anche la base da cui ripartire per contrastare il calo demografico. Senza contare che redistribuire il lavoro di cura e sostenere la partecipazione femminile al mondo del lavoro contribuisce a rompere gli stereotipi che vincolano madri e padri a ruoli rigidamente predefiniti.

Il divario occupazionale tra uomini e donne

Alla luce di carichi di cura così diversi, è interessante analizzare l’occupazione maschile e femminile tra i 25 e i 49 anni, composta da poco più di 18 milioni di persone nel 2021. Tra gli uomini, gli occupati sono circa 7,3 milioni su 9,1, con un’incidenza pari all’80,3%. Situazione molto differente per le lavoratrici: risultano infatti occupate circa 5,6 milioni di donne su quasi 9 milioni con età compresa tra 25 e 49 anni. Un’incidenza pari al 62,9%.

17,3 punti percentuali di differenza nel tasso di occupazione tra uomini e donne di 25-49 anni.

Differenze che però sono più marcate in diverse aree del paese: se questa divergenza è minore al nord (nel dettaglio 13,5 punti per il nord-est e 13,8 per il nord-ovest) e al centro (14,3), segna i valori maggiori nel mezzogiorno: nelle isole è pari a 22 punti mentre nel sud a 24,5. Aspetto dettato da una maggiore disoccupazione femminile che in quelle aree del paese si assesta rispettivamente al 47,7% e al 45,8%.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Istat
(consultati: martedì 27 Febbraio 2024)

A livello regionale, la spaccatura è ancora più evidente. Nessuna regione del sud infatti riporta dati minori di una del centro-nord in termini di divario occupazionale. Il valore maggiore è registrato dalla Campania (27,3 punti percentuali), seguita da Puglia (24,6), Sicilia (24,5) e Basilicata (23,4). Registrano invece divergenze minori tre regioni del nord: Piemonte (12,6), Trentino-Alto Adige (10,7) e Valle d’Aosta (9). È però importante notare che questi territori settentrionali vedono la presenza di numerosi piccoli comuni, in cui la situazione cambia anche ampiamente.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Istat
(consultati: martedì 27 Febbraio 2024)

A livello di capoluoghi, quelli in cui il divario supera i 20 punti percentuali sono tutti nel sud del paese: Andria, Taranto, Trani, Barletta, Brindisi, Napoli, Catania, Palermo, Foggia, Siracusa, Bari, Trapani, Reggio di Calabria, Caltanissetta, Catanzaro, Messina ed Enna. Tra quelli con minori valori figurano invece sia città del nord che del sud: Ferrara (8,4), Cagliari (7,6), Nuoro (7,3), Belluno (7,08) e Siena (5,92).

Si può notare dalla mappa che, nonostante la maggior parte dei comuni italiani riporti un’occupazione maschile superiore a quella femminile, ci sono anche dei casi di controtendenza: si tratta di 104 comuni sui 7.903 registrati nel 2021. Questi si trovano principalmente nell’arco alpino piemontese e hanno una dimensione della fascia demografica presa in esame molto ridotta.

Gli strumenti per la riduzione del divario

A supporto di una genitorialità maggiormente paritaria, si possono annoverare un insieme di politiche e strumenti diversi. Un primo presidio fondamentale è rappresentato dai servizi per la prima infanzia: abbiamo avuto modo di approfondire come nelle aree del paese in cui è più presente l’offerta di asili nido, anche l’occupazione femminile risulti maggiore. Per questo motivo l’estensione di questi servizi è cruciale, sia in termini di aumento dei posti disponibili che di riduzione dei costi per le famiglie.

Sono inoltre previsti dall’ordinamento nazionale italiano dei congedi parentali per permettere ai neogenitori di potersi occupare del bambino, a partire dalle prime fasi della sua vita. Negli ultimi anni, su questo fronte vi sono state numerose modifiche per estenderne l’accesso. Anche sulla scorta delle politiche europee che indicano come fondamentale raggiungere la parità a livello lavorativo. La direttiva 2010/18 definisce che entrambi i genitori possono usufruire di un periodo minimo di quattro mesi, di cui uno attribuito in forma non trasferibile. A livello italiano, il decreto legislativo 105/2022 ha confermato il congedo di paternità obbligatorio come strutturale.

Con la legge di bilancio per il 2024, il legislatore è intervenuto nuovamente sull’insieme di strumenti per la conciliazione, anche rispetto alle modifiche già apportate dalla legge di bilancio dell’anno precedente. Nell’anno in corso i nuovi genitori potranno infatti godere dell’incremento dell’indennità di congedo parentale all’80% per uno dei 9 mesi che risultano indennizzabili. Solo per il 2024 è possibile usufruire dell’indennità all’80% per un secondo mese, altrimenti calcolata al 60%. Dal 2025 però questa si ridurrà al 60% mentre per gli altri viene mantenuta al 30%. L’accesso a questo strumento può avvenire fino ai 12 anni di età del bambino o della bambina.

Nonostante l’importanza che questo strumento ricopre alla luce dei divari lavorativi, viene ancora principalmente richiesto dalle donne. Come abbiamo già approfondito, nel 2021 il 79,1% della platea di beneficiari del congedo tra i lavoratori dipendenti era donna, mentre il restante 20,9% era uomo. Nel 2022, questa quota è tornata a crescere al 22,1%. Nonostante l’incremento negli anni dell’incidenza degli uomini, risulta quindi ancora uno strumento utilizzato principalmente dalle donne. Un aspetto che evidenzia ulteriormente come all’interno dei nuclei familiari la gestione delle attività di cura sia ancora lontana da un equilibrio paritario.

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I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati relativi ai residenti per età e cittadinanza sono stati elaborati a partire da fonti Istat.

Foto: Kelli McClintockLicenza

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