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Né con l’eutanasia di Stato né con la terapia di Stato.
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(23 luglio 2008) - fonte: Il Riformista - Margherita Boniver - inserita il 23 luglio 2008 da 31
Il rischio maggiore che si corre sul caso di Eluana Englaro è quello di una contrapposizione ideologica tra chi sostiene la sacralità assoluta della vita e chi si appella al valore della «dignità della persona», tra chi si richiama all’etica cristiana e chi difende il principio laico dell’autodeterminazione. Credo che da questo punto di vista sia opportuno, per tutti, fare un passo indietro, e guardare la vicenda nella sua dolorosa concretezza, muovendo dalla constatazione di due fatti.
Il primo è che la giustizia s’è dimostrata sostanzialmente impotente di fronte alla vicenda. Da un lato, la Corte ha sicuramente agito in modo «creativo», come ha osservato Giuliano Vassalli, in quanto «secondo il diritto positivo vigente» non c’è «una base per la decisione della suprema Corte» (Il Foglio, 16 luglio 2008).
Finché nel nostro paese la certezza del diritto si baserà sulle norme scritte, non deve essere consentito alla magistratura di andare oltre i propri confini, anche se questa, purtroppo, è una prassi invalsa nel tempo. Dall’altro lato, bisogna riconoscere che la stessa Corte non poteva sottrarsi in alcun modo alla responsabilità di rispondere a una domanda di giustizia proveniente da un cittadino, il padre di Eluana, alle prese con una questione tanto dolorosa e delicata.
Il secondo fatto è che al centro della vicenda ci sono due persone, Eluana e suo padre, che chiedono al mondo politico e alla comunità scientifica di essere accompagnati e sostenuti.
Di fronte a questioni di tale portata, è forte la tentazione di lasciarsi andare a una visione politicistica e totalizzante, in base al quale il legislatore per definizione sa tutto e ha il diritto-dovere di decidere su tutto, regolando anticipatamente tutti i possibili casi che ci si trova ad affrontare ed evitando qualsiasi incertezza. In questo caso, abbiamo l’«eutanasia di Stato» oppure la «terapia di Stato»: due facce della stessa medaglia, in quanto si basano sulla presunzione di dedurre le norme da principi assolutamente certi e chiari e di dover dare centralità a principi astratti, piuttosto che alla persona e al contesto affettivo e relazionale in cui essa è inserita e in cui la sua dolorosa vicenda si svolge.
Si tratta di un approccio che trovo pericoloso per lo Stato di diritto e per la democrazia. L alternativa a questa filosofia è un atteggiamento empirico e pragmatico, basato sulla premessa che in materia di bioetica siano esclusi giudizi incontrovertibili e che bisogna mantenersi aperti all’evoluzione della società e della scienza.
La cosa migliore che si possa fare in questi casi è, dunque, partire dalla centralità della persona (né della scienza, né del diritto) e concentrarsi sulle soluzioni possibili, non tanto e soltanto a questo caso, quanto a quelli, analoghi, che si presenteranno in futuro.
E’ possibile, ad esempio, escludere che l’alimentazione e l’idratazione si configurino come terapia o, addirittura, come accanimento terapeutico? Personalmente, non credo. Fino a circa mezzo secolo fa, l’idratazione e l’alimentazione avveniva in maniera artigianale: si trattava di accompagnare il paziente verso la morte, limitando il più possibile le sue sofferenze. La tecnologia medica oggi rende possibile prolungare lo stato vegetativo di malati ormai senza più prospettive di riacquisto della coscienza, in modo praticamente indefinito. Ora, nessuno può essere costretto a subire l’accanimento terapeutico, proprio in nome del valore fondamentale, nel nostro ordinamento, del diritto alla vita.
Quest’ultimo, infatti, va inteso nella sua interezza, e non solo con riferimento a una visione meccanica della vita, considerata esclusivamente in relazione al respiro e al battito cardiaco. L’indisponibilità della vita comprende il diritto a rifiutare terapie che non danno alcuna speranza di guarigione e di ritorno alla vitalità.
Il problema, a questo punto, è quello di stabilire qual è la volontà della persona interessata. Da questo punto di vista, il Parlamento può fare molto, promuovendo finalmente la legislazione sul testamento biologico. Ma l’uso stesso del testamento biologico è difficile se non si interviene innanzitutto sul piano sociale, tenendo conto della concreta situazione in cui il malato in stato vegetativo è collocato. La stessa interpretazione delle volontà predisposte, infatti, richiede necessariamente l’intervento dei familiari. Non basta, dunque, intervenire sul piano legislativo. E necessario rafforzare l’assistenza alle famiglie che vivono questi drammi. I casi come quelli di Eluana sono circa tremila e il numero è destinato a crescere, proprio per l’evoluzione delle tecniche di mantenimento in vita. Ma molto può fare anche la comunità scientifica, seguendo le indicazioni del Consiglio superiore della Sanità emanate nel 2006, circa la definizione di linee guida sull’accanimento terapeutico.
E’ evidente che ogni decisione sarà sempre difficile e dolorosa, aperta alle critiche più radicali. L’importante è che si abbia il buon senso di mettere al centro la persona, non le proprie ideologie, non le proprie convinzioni filosofiche o religiose. Si può cominciare da subito, rinunciando tutti, ma proprio tutti - a fare della povera Eluana una bandiera.
Fonte: Il Riformista - Margherita Boniver | vai alla pagina » Segnala errori / abusi