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Cristina Molfetta è antropologa culturale e fa parte del Coordinamento Non solo asilo. Cristina spiegarci di che cosa si occupa Non Solo Asilo.

Il coordinamento Non Solo Asilo è nato nel 2008, è una realtà di secondo livello che riunisce 15 realtà diverse del Piemonte, alcuni sono enti gestori di Sprar storici, altri sono enti di formazione e altri Ong. La cosa che ci ha portato a unirci sono state all’inizio le occupazioni, prima di Corso Peschiera e poi altre occupazioni avvenute a Torino. Il tema era quello di confrontarci sul sistema esistente di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati e provare a ragionare su quali sono i gap e anche di come in realtà, le problematiche di chi arriva in Italia e cerca casa e lavoro siano le problematiche che più in generale riguardano i cittadini Italiani. Il coordinamento prova ad analizzare la situazione del Piemonte. Non facciamo dei progetti non gestiamo dei fondi ma dedichiamo del tempo, anche se ognuno da enti diversi, per ritrovarci e ragionare insieme sulla situazione.

Ascolta l’intervista integrale a Cristina Molfetta

Dalle mappe che abbiamo generato vediamo un’ampia distribuzione di piccoli centri su tutto il territorio. Dall’esterno questa sembra una buona pratica ma qual è la vostra esperienza sul campo?

Non solo dall’esterno, nella stragrande maggioranza dei casi lo è. La prefettura di Torino ha adottato l’idea che anche l’accoglienza nei Cas debba essere, ove possibile, un’accoglienza decentrata, favorendo centri fino a 20 persone o al massimo fino a 40, riducendo di molto i grandi centri. Torino è una delle realtà che ha attuato lo Sprar fin da subito e ci sono stati molti ragionamenti nella provincia di Torino su come creando delle piccole accoglienze, concordate col territorio, con numeri ridotti e una rete intorno si favorisse o meno dei processi di inclusione. Forse è abbastanza un unicum che questo tipo di ragionamento sia stato adottato dalla stessa prefettura, e che questa abbia portato avanti una strategia per implementare un’accoglienza più decentrata che concentrata.

Secondo te non c’è poi il rischio che i piccoli centri si trovino in zone molto isolate?

Può essere uno svantaggio se non c’è alla base un ragionamento di base. Un’esperienza che c’è in Piemonte è quella dei comuni in rete della Val di Susa in cui ci c’è stato molto dibattito e anche una serie di studi. Certamente i centri periferici potrebbero rappresentare uno svantaggio. Ma se c’è una grande motivazione, come nel caso della Val di Susa, se ci sono persone organizzate che già si conoscono e che hanno attivato queste piccole accoglienze nei piccoli comuni, mantenendo una rete tra di loro e creando servizi forti e legami tra la cittadinanza e i centri, allora questi svantaggi si attutiscono. Naturalmente di per sé piccolo non vuol dire virtuoso. Ci sono anche delle esperienze di piccoli appartamenti dove a volte, e non necessariamente per la posizione, centri piccoli possono essere gestiti male. Possono non essere state sviluppate reti e le persone possono essere abbandonate. Non voglio neanche sembrare l’ideologa del piccolo. Un appartamento con poche persone non vuol dire di per sé che quelle persone siano seguite bene. Però se al piccolo si unisce una rete, un’idea, la creazione di servizi e un dialogo con la cittadinanza siamo già a un buon punto.

Il nuovo capitolato di gara sembra privilegiare invece alte concentrazioni di persone e “servizi interni” ai centri. Come si concilia questo con la scelta di promuovere un’accoglienza diffusa?

Si concilia malissimo. Probabilmente è nato avendo in mente altre considerazioni, più riferite al controllo e alla gestione dei fondi pubblici e delle gare d’appalto, una modalità di ragionare che nasceva più dagli appalti di grandi strutture. Forse non si è concentrato molto sul considerare le accoglienze decentrate, la storia dell’accoglienza in Italia e quindi in particolare l’aspetto dell’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati. Questo capitolato applicato all’accoglienza in realtà fa fare dei passi indietro. Perché spinge ad avere servizi interni, privilegia i grandi numeri e fa tutto tranne che favorire l’incontro tra le persone accolte e la realtà esterna. Ad esempio favorisce il fatto che ci siano medici e infermieri all’interno, inizialmente addirittura prevedeva una serie di servizi sanitari h24, neanche i richiedenti asilo fossero dei malati psichiatrici. Quindi questo tipo di idea di creare dei servizi interni che non dialogano con l’esterno, quando invece tutti i richiedenti asilo possono essere iscritti al servizio sanitario, ed è bene che lo siano, e possono avere un medico di base. L’idea di mantenere questi servizi interni ai centri non dialoga con le esigenze delle persone che arrivano e devono interagire e integrarsi il più velocemente possibile, ma risponde ad altri criteri e ad altre esigenze.

Gli enti locali sono coinvolti nelle scelte della prefettura su dove collocare i Cas e più in generale su come organizzare il sistema di accoglienza straordinaria?

Secondo me sono stati tutti chiamati prima di fare i bandi. Ci sono dei comuni che hanno anche fatto loro delle proposte di accoglienza decentrata che coinvolge più territori, come nel caso che abbiamo citato in Val di Susa. Chiaramente non tutti i territori hanno reagito allo stesso modo e alcuni si sono mostrati ostili. Ci sono state molte assemblee pubbliche in cui si è discussa l’esigenza da un lato della prefettura di portare avanti l’accoglienza, e dall’altro i sentimenti del sindaco e del territorio che in alcuni casi erano contrari. Però c’è stato un tentativo di dialogo costante che ha prodotto risposte diverse. Esistono poi anche casi particolari come quello di del territorio di Ivrea, dove i comuni si sono accordati e hanno delegato l’accoglienza dei Cas ai servizi socio assistenziali in rete. Quindi dove è possibile c’è una forma di dialogo e di collaborazione e questa forse è anche una specifica piemontese, cioè questa capacità, pur non andando sempre d’accordo, dialogando e configgendo, di creare comunque una rete tra istituzioni diverse e tra cittadini e istituzioni in modo da trovare comunque una mediazione.

Oltre a molti piccoli centri ci sono poi alcuni centri grandi, in che modo questi si inseriscono in un modello di accoglienza diffusa?

Qui dipende da chi te lo racconta, se senti la prefettura ti dirà che almeno tre o quattro gradi centri nella Provincia di Torino sono necessari per avere una sorta di bacino dove mettere le persone quando arrivano per poi smistarle in centri più piccoli. Dal nostro punto di vista questi grandi centri rappresentano la possibilità per la prefettura di poter collocare le persone senza discutere troppo, ma spesso non sono le migliori pratiche. L’altra criticità che vediamo è che in realtà in questi grandi centri le persone rimangono a lungo. Nell’Hub di Settimo effettivamente le persone andavano via in maniera abbastanza veloce, almeno fino a quando il numero degli arrivi era costante, in questo momento però che di arrivi non ce ne sono molti, nello stesso Hub di Settimo le persone rimangono a lungo. Quindi il rischio è che idealmente c’è un rapido passaggio dai grandi centri ai piccoli centri, ma nella realtà succede che alcune persone finiscono in questi grandi centri come richiedenti asilo e poi ci vengano lasciate per tutto il loro percorso e di solito questi centri non sono la realtà più virtuose dal punto di vista della qualità dei servizi e delle possibilità offerte alle persone. Quindi per noi questo continua ad essere uno svantaggio.

Una volta assegnati i bandi la prefettura porta avanti un’opera di monitoraggio per verificare il rispetto degli obblighi contrattuali e le condizioni degli ospiti dei centri?

Su questo mi sento di allargare un po’ il discorso perché come coordinamento Non Solo Asilo assieme al dipartimento culture politiche e società dell’università di Torino, abbiamo portato avanti un progetto di analisi sul tipo di monitoraggio che facevano le diverse prefetture del Piemonte. Ci siamo resi conto che ogni prefettura del Piemonte aveva messo in atto un equipe e una modalità di monitoraggio delle diverse strutture. Tutte andavano a fare delle visite e in particolare la prefettura di Torino, forse anche perché è il capoluogo e per il numero di dipendenti, ogni anno ha addirittura circa 40/50/60 funzionari che si dedicano alle visite e al monitoraggio delle diverse accoglienze in Piemonte. Questo fornisce effettivamente una possibilità. Ovvero non solo fare dei capitolati appositi e avere un’idea di accoglienza più decentrata e diffusa ma anche entrare realmente nelle strutture per rendersi conto se i servizi che vengono effettivamente svolti sono corrispondenti o meno al capitolato. Quanto al progetto che abbiamo portato avanti la nostra sensazione è che nonostante le visite ispettive ci siano, lo sguardo dei funzionari della prefettura non sia tanto rivolto agli ospiti dei centri e quindi a chiedere il loro parere né a capire quanto poi in realtà questi centri dialoghino con il territorio e quali tipi di servizi vengano messi in atto. Ciò che viene monitorato è più la compatibilità tra il capitolato che hanno firmato con le realtà di accoglienza e quello che poi realmente avviene.

Dai dati che abbiamo analizzato emerge che i tre gestori più importanti ospitano circa un terzo dei migranti in accoglienza, l’Isola di Ariel, il consorzio In Rete, che è un consorzio formato da comuni, e Acuarinto. Qual è la vostra esperienza con questi gestori?

Sul consorzio In Rete ti dico che mi sembra un’esperienza virtuosa, perché si sono parlati prima, hanno fatto una proposta alla prefettura e sono arrivati con un’idea. È vero che sono numeri alti ma è vero anche che sono diffusi in un territorio molto ampio, e il fatto che ci sia un dialogo tra istituzione locale e prefettura mi sembra un aspetto positivo. Ho più dubbi rispetto agli altri due enti gestori che sono dei privati e che come tutti quelli che gestiscono grandi numeri fanno più fatica rispetto a delle accoglienze più piccole a dedicare un’attenzione specifica alle persone e a creare servizi. Negli anni ci sono stati anche dei casi in cui queste due realtà sono state coinvolte in episodi di, tra virgolette, cattiva gestione. La prefettura stessa monitora spesso queste realtà e ci siamo chiesti come mai nonostante questi dubbi poi questo tipo di accoglienza permanga nel tempo. La risposta che ci siamo dati è che, come dicevamo, probabilmente dal punto di vista della prefettura avere dei bacini più grandi dove poter mettere in qualunque momento le persone che arrivano, li aiuta nella gestione e quindi ogni tanto sono disponibili a chiudere un po’ gli occhi rispetto a delle carenze nei servizi che forse lì si manifestano più che altrove.

Quindi nel complesso qual è il vostro giudizio sul modello Torino sia negli aspetti che potrebbero migliorare che rispetto a quelle che possono essere altre esperienze nel territorio italiano?

Noi diamo un giudizio positivo per il fatto che fino ad ora c’è stata attenzione nel provare a favorire le piccole accoglienze. La prefettura rimane comunque un organismo, come dire, più decisionista di altri, e per noi questa è una criticità. Noi crediamo come coordinamento Non Solo Asilo, anche se assolutamente in controtendenza rispetto al clima, che l’accoglienza delle persone dovrebbe essere uno dei servizi del territorio e non dovrebbe essere gestito dalla prefettura ma diventare invece uno dei servizi a capo degli enti locali. Ciò detto anche se questo non è avvenuto, il fatto che la prefettura si sia impegnata negli anni, il fatto che faccia delle visite ispettive anche se queste visite magari non sono così attente alle persone e al territorio, è più positivo che negativo. Poi chiaramente ci sono degli aspetti che come enti del terzo settore e come prefettura vediamo diversamente.

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