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Nei mesi del lockdown, con la convivenza obbligata in casa, si è riaccesa l’attenzione sulle violenze domestiche. Una piaga che, a prescindere dalla pandemia, riguarda troppe donne ogni anno per essere relegata a una dimensione emergenziale. È una questione strutturale della nostra società, che interroga su numerosi aspetti, dalla concezione dei rapporti familiari al ruolo della donna nella società.

L’aumento delle chiamate al 1522 durante il lockdown

Le violenze di genere purtroppo fanno spesso parte della quotidianità delle donne. Atti di violenza che hanno luogo all’interno delle mura domestiche, in contesti familiari, per mano di partner o ex partner. Aggressioni fisiche e psicologiche che diventano notizie di cronaca quando culminano nella loro espressione più estrema, il femminicidio. Ma che per la maggior parte restano nascoste e diventano atti quotidiani che provocano paura, sofferenza e vergogna nelle donne che li subiscono. Un odio che compare nelle cronache quando culmina nell’uccisione, ossia nel femminicidio, ma che in molti casi, di cui si parla molto meno, si trasforma in una quotidianità violenta fatta di paura, vergogna e sofferenza da parte della donna.

Se per molti il lockdown ha significato l’obbligo di restare chiusi in casa con i propri familiari o conviventi, per molte donne ha rappresentato una vera e propria prigionia, senza vie di fuga dal proprio carnefice, un partner violento. Questa situazione è emersa dalle crescenti chiamate al 1522, il numero antiviolenza. Infatti, nei mesi di lockdown le donne che si sono rivolte a questo servizio telefonico per un supporto psicologico sono aumentate notevolmente, soprattutto se paragonate allo stesso periodo dell’anno precedente.

I dati raffigurano l’andamento temporale delle chiamate ricevute al numero antiviolenza (1522) nei mesi da marzo a giugno. Sono messi a confronto la serie temporale giornaliera del 2020 con la media degli anni precedenti dal 2013 al 2019.

FONTE: elaborazione openpolis - Con i Bambini su dati Istat
(ultimo aggiornamento: martedì 30 Giugno 2020)

La situazione che si è evoluta durante il lockdown è evidente dai dati Istat. Infatti, da marzo a giugno 2020 ci sono state 15.280 chiamate al 1522 e nel periodo dal 9 marzo al 3 maggio ne sono state effettuate 7.410. Per una media di 135 telefonate al giorno in questi mesi. Un dato ancora più allarmante se paragonato alla media delle telefonate ricevute negli stessi mesi tra il 2013 e il 2019, cioè 56 al giorno, ben 79 in meno rispetto al 2020. Nel 2020 si è registrato un aumento pari a 79 chiamate.

Complessivamente, i dati del 2020 sono notevolmente superiori a quelli degli anni precedenti che, in media, non hanno mai superato le 100 chiamate quotidiane. Solo a giugno, finito il lockdown, il numero di telefonate ha iniziato a calare.

219 le telefonate effettuate al 1522 solo nella giornata del 14 aprile 2020, il numero più alto nei sei mesi considerati.

Il 1522 nasce nel 2006 su iniziativa del dipartimento per le pari opportunità, allo scopo di prevenire e ridurre il più possibile i casi di violenza e di femminicidi. L'attività di sostegno è stata potenziata a seguito dell'entrata in vigore con il decreto 11/2009 (convertito con legge 38/2009), poi successivamente modificata nel 2013 con il decreto 119/2013 (convertito con la legge 119/2013), all'interno della quale vengono regolamentati anche gli atti persecutori, in aggiunta alla violenza di genere (fisica e psicologica).

Gli atti di stalking, per essere definiti come tali, devono ripetersi nel tempo e generare nella vittima ansia e timore al punto di condizionarne le abitudini.

Da quel momento il 1522 tratta anche i casi di stalking, un fenomeno che ha riscosso maggiore attenzione anche nel dibattito pubblico a seguito di denunce e di ulteriori femminicidi anticipati da un periodo di atti persecutori da parte dell'assassino.

Il numero antiviolenza è attivo 24 ore su 24 ed è disponibile in diverse lingue, proprio per tutelare anche le donne straniere. I dati pubblicati fanno emergere che le richieste di aiuto e di sostegno sono aumentate considerevolmente durante i mesi di marzo, aprile e maggio 2020.

Tuttavia, una chiamata al numero antiviolenza non si traduce necessariamente in una denuncia. Nasce come un servizio che fornisce una prima risposta ai bisogni delle vittime di violenza di genere e stalking, offrendo informazioni utili e un orientamento verso i servizi socio-sanitari pubblici e privati presenti sul territorio nazionale. Dunque, i dati delle serie temporali sono importanti in quanto mostrano come l'isolamento in casa abbia aumentato le situazioni di violenza domestica. I dati relativi alle chiamate effettuate al 1522 sono un indicatore del fenomeno soprattutto in una situazione emergenziale come quella del 2020, dove possiamo pensare che le denunce alle forze dell'ordine siano state meno frequenti per le maggiori difficoltà a uscire di casa. Ma a prescindere dal lockdown, sono dati utili per monitorare le tendenze di un fenomeno che spesso sfugge alla possibilità di essere misurato con le sole denunce; in molti casi purtroppo non pervenute. Sia per un sentimento di vergogna, provato di frequente dalla vittima, sia per il clima di paura e intimidazione all'interno delle mura domestiche, dove il partner violento spesso limita le uscite della donna impedendole quindi fisicamente di recarsi dalle forze dell'ordine.

I reati spia: la campanella d'allarme prima del femminicidio

Il 1522 ha funzione di supporto psicologico, non di denuncia. Questa è possibile solo attraverso le forze dell'ordine.

Un'altra modalità per monitorare il fenomeno è attraverso le denunce dei reati spia, vale a dire di tutti quei delitti che sono indicatori di violenza di genere. Tra questi i maltrattamenti in famiglia, le violenze sessuali e lo stalking, che dal 2009 è legalmente considerato un reato, punibile con la reclusione da sei mesi a quattro anni.

Le violenze di genere possono essere sessuali, fisiche, psicologiche ed economiche.

Quando si tratta di dati relativi ai reati spia bisogna tener conto di due aspetti. In primis, spesso questo tipo di reati non vengono denunciati alla polizia, quindi considerare il numero di denunce rischia di essere scarsamente rappresentativo. Specialmente se si considera il 2020, come visto in precedenza.

In secondo luogo, i reati spia spesso coinvolgono la sfera quotidiana della vittima al di fuori della casa. In un periodo come quello passato nel 2020, questi reati, soprattutto quelli legati al pedinamento tipico dello stalking, sono calati, a causa delle limitazioni agli spostamenti. Tuttavia, la lettura complessiva dei dati si mostra meno scontata di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi. Infatti, comprendere come questo fenomeno sia evoluto anche in una situazione atipica rispetto ad un anno normale ci fa comprendere l'entità sociale che il fenomeno ha assunto.

In questo senso, i dati Istat mostrano come, nonostante il periodo di lockdown, i reati spia denunciati alle forze dell'ordine siano in diversi casi rimasti stabili o abbiano registrato un calo tutt'altro che netto, se paragonati allo stesso periodo dell'anno precedente. Dunque, se ci si poteva aspettare una riduzione importante di tale tipologia di violenza, il lockdown non ha comportato questa effettiva battuta di arresto.

I dati rappresentano la percentuale di donne sul totale delle vittime di reati spia (atti persecutori, maltrattamenti contro familiari e conviventi e violenze sessuali) per ciascun reato delle vittime di sesso femminile. I dati fanno riferimento ai mesi da marzo a giugno del 2019 e 2020.

FONTE: elaborazione openpolis - Con i Bambini su dati Ministero dell'interno
(ultimo aggiornamento: lunedì 20 Luglio 2020)

L'incidenza delle violenze sessuali compiute sulle donne, per esempio, nel mese di febbraio è calata di 3 punti percentuali (90% dei reati spia) rispetto al mese precedente (93%), un dato comunque molto elevato. Nei mesi successivi, marzo e aprile, rimane stabile al 91%, sottolineando un lieve aumento dal mese precedente, ma inferiore a quello dell'anno precedente. Tuttavia, questa percentuale aumenta nuovamente fino al 95% su tutti i reati spia denunciati nel mese di maggio, cioè 6 punti percentuali in più rispetto all’anno precedente. Tra gennaio e giugno 2019 sono state denunciate 2.254 violenze sessuali, l'anno successivo il numero cala fino a 1.617 ossia il 9% sul totale dei reati spia commessi nei primi sei mesi del 2020 contro l'11% di quelli avvenuti nel 2019.

368 numero di violenze sessuali denunciate a gennaio del 2020.

Un ulteriore esempio di una tendenza meno netta è data dagli atti persecutori o stalking. Infatti, nei mesi di aprile e maggio l'incidenza della quota dei reati persecutori sul totale dei reati spia con vittime donne è calato di 6 punti percentuali rispetto al 2019.

Per quanto riguarda, invece, i maltrattamenti contro familiari e conviventi i dati rimangono piuttosto stabili rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente registrando solo alcune fluttuazioni nei mesi. Infatti, esclusi i mesi di gennaio e di marzo in cui ci sono state mediamente 300 denunce in meno (1.663 nel 2020 contro i 1.966 nel 2019), negli altri mesi si sono registrate 1.565 denunce, ossia 80 in più a febbraio, 1.453 ad aprile pari a 73 in meno e 174 in più a maggio per un totale di 1.697 nel 2020 e 1.523 nel 2019.

IIn generale, l'andamento delle denunce dei reati spia durante i mesi di chiusura si può prestare ad una duplice lettura. Da un lato, la possibile contrazione dovuta al lockdown, dall'altro però anche un minor numero di denunce proprio per le limitazioni agli spostamenti.

Le caratteristiche della violenza di genere

I dati analizzati finora si riferiscono alle denunce alle forze dell'ordine in cui è apposta la firma della vittima sul verbale. Tuttavia, le donne che denunciano sono un numero esiguo rispetto a quelle che dichiarano di subire violenza.Infatti, solo il 24% denuncia (Istat, 2020): la percentuale varia fra il 25% quando si tratta di un partner precedente e il 17% quando si tratta del partner attuale.

A questo si aggiunge un ulteriore problema, ossia il verbale della denuncia. Infatti a seguito della denuncia e della stesura del verbale, la vittima deve firmarlo per il proseguimento delle indagini. Tuttavia, il 31,4% delle denunce non vengono firmate né di conseguenza depositate. Questo fa sì che le possibili azioni che seguono la denuncia subiscano una battuta d'arresto, lasciando sovente il partner violento impunito.

80% delle donne che hanno denunciato una violenza nel 2014 non ha firmato il verbale se l'autore era il partner attuale.

Nei mesi da marzo a giugno nel 2020 si stima siano state 4.738 le donne vittime di violenza che non hanno denunciato. Di queste il 20,5% dichiara di non voler denunciare per evitare di compromettere la famiglia, mentre il 24,1% ha paura delle conseguenze sociali o delle ripercussioni da parte del partner violento. Infine il 6,1% non denuncia per paura di perdere la casa, non sapendo dove andare altrimenti.

I dati rappresentano la quota di onne secondo i motivi che le hanno impedito di denunciare la violenza di genere subita nel periodo di marzo-giugno 2020.

FONTE: elaborazione openpolis - Con i Bambini su dati Istat
(ultimo aggiornamento: martedì 30 Giugno 2020)

76% di donne dichiara di non aver denunciato la violenza subita, di queste l'83,4% non ha denunciato il partner attuale rispetto al sondaggio del 2014.

Se da una parte le donne sono intimorite dal denunciare la violenza subita, dall'altra si aggiunge la difficoltà a procedere delle forze dell'ordine in quanto la violenza non viene verbalizzata. Infatti, nel 2014 quasi il 40% non firma il verbale, e questo fa capire le ulteriori difficoltà che si aggiungono nella lotta al fenomeno del femminicidio e della violenza di genere. Infatti alla violenza spesso si aggiunge un contesto sociale non solidale con la vittima, che non incoraggia la denuncia del reato. Dai dati Istat emerge che l'1,4% delle persone che non denunciano la violenza teme di essere giudicata male dai propri familiari, e quindi l'isolamento dalla sua stessa famiglia.

86,6% di donne dichiara che l'episodio subito è stato "molto" e "abbastanza" grave.

Nonostante l'episodio di violenza venga percepito dalla vittima come grave, la maggior parte delle donne non denuncia e, in molti casi, ritorna dal proprio carnefice. Una decisione che non viene mai presa a cuor leggero e che è spinta da diversi e complicati motivi, come abbiamo visto in precedenza. In questo senso è importante innanzitutto rendere accessibili a tutti le informazioni relative ai centri antiviolenza e ai servizi che offrono. Un modo per cercare di aiutare le donne a vedere un'alternativa alla loro quotidianità di violenza.

Il ritorno a casa con il violento

Come è emerso dai dati sulle mancate denunce, nel periodo tra marzo e giugno 2020, il 5,6% delle donne che non hanno denunciato la violenza subita hanno dichiarato come motivo il ritorno dal maltrattante. Le ragioni che portano la donna a tale decisioni sono varie, tra cui la speranza che il partner possa cambiare e che questo porti a un futuro migliore, per sé e per i figli laddove presenti.

Dai dati precedentemente descritti è emerso che che molte donne non denunciano la violenza subita e molte di queste dichiarando come principale motivazione il ritorno dal maltrattante. Ma quali sono la cause che spingono a una simile decisione? Una indagine Istat nel 2014 ha rilevato le motivazioni più frequenti per cui le donne dichiarano di essere tornate dal partner violento a seguito di una separazione. I motivi più spesso addottati sono svariati, tra questi la speranza che il partner possa cambiare, di un futuro migliore per sé e per i figli laddove presenti.

I dati rappresentano la quota di donne che ha partecipato all’indagine relativa ai motivi per cui sono ritornate a vivere con il proprio partner a seguito di una separazione in cui vi è stata una o di più violenze. Le rispondenti erano donne dai 16 ai 70 anni separate, di fatto o legalmente, o divorziate che hanno subito una o più violenze da un partner nel 2014. Il totale delle percentuali supera il 100% in quanto vi era la possibilità di dare più risposte al quesito.

FONTE: elaborazione openpolis - Con i Bambini su dati Istat
(ultimo aggiornamento: mercoledì 31 Dicembre 2014)

Il 38% delle donne che hanno partecipato all'indagine ha rivelato di esser tornata a vivere con il proprio partner violento a seguito di una promessa di cambiamento da parte di lui, mentre il 30% ha affermato di avergli voluto dare una seconda possibilità. Da notare che il 5% delle rispondenti ha dichiarato che la separazione era oggetto di vergogna e che quindi era preferibile ritornare a vivere con il partner, seppur violento, pur di evitare le pressioni sociali che sarebbero seguite alla separazione.

Le donne vittime di violenza possono accedere all'assistenza legale senza costi attraverso il patrocinio gratuito.

Questo dimostra ulteriormente come il pregiudizio nei confronti della separazione, specialmente se voluta dalla donna, sia ancora molto forte in alcuni contesti sociali. Così come è ancora frequente che le donne scelgano di restare col partner perché prive di alternative abitative (11%) e per motivi economici (6%).

Infine, una tematica importante quando si tratta di violenze domestiche sono i figli. Infatti, il 28% delle donne vittime ritiene che il ricongiungimento familiare sia una soluzione accettabile per garantire il bene dei propri figli. Questo dato, nella sua gravità, mette in luce tutte le implicazioni che ci possono essere quando all'interno del nucleo familiare ci sono figli che assistono o subiscono a loro volta la violenza.

I figli: l'altra faccia delle violenze domestiche

Dai dati Istat emerge che nei mesi di marzo e giugno 2020 le donne vittime di violenza con figli sono state 3.801, un numero che negli ultimi cinque anni è aumentato considerevolmente. Infatti, si è passati da 1.930 nel 2015 a 2.212 nel 2018, fino al dato dell’anno scorso vicino a 4.000. Figli che sono essi stessi vittime, insieme alla madre, in quanto assistono e in alcuni casi subiscono la violenza.

I dati rappresentano il numero di figli sia maggiorenni che minorreni che nei mesi tra marzo e giugno dal 2013 al 2020 hanno subito o hanno assistito a violenza domestica.

FONTE: elaborazione openpolis - Con i Bambini su dati Istat
(ultimo aggiornamento: giovedì 31 Dicembre 2020)

Come è emerso ci sono donne che subiscono quotidianamente violenza e non denunciano e che non possono di conseguenza accedere ad alcun programma di supporto e di protezione per se stesse e per i figli.

+86% l'aumento dei figli che ha assistito a violenza tra il 2019 e 2020.

A tal proposito, dai dati Istat si nota che nel 2020 si è registrato il secondo numero più alto di figli che hanno assistito a violenza domestica, pari a 1.923. Un dato superato solo da quello del 2013 (2.121 figli). La stessa tendenza si riscontra relativamente ai figli che hanno subito violenza in prima persona. Infatti, nel 2020 sono stati registrati 354 casi di violenza sui figli, 11 in più rispetto all’anno precedente e 107 in più rispetto al 2016. L’anno, considerati i tre mesi in analisi, in cui è stato registrato il numero più alto di figli vittime di violenza è il 2013, con un picco pari a 686.

53,4% dei figli che hanno assistito violenza dichiarano di provare paura o ansia a seguito dell'atto.

Visti i numeri è importante capire anche che tipo di conseguenze psicologiche i figli, sia maggiorenni che minorenni, potranno avere nel corso della vita. Il 54% dei ragazzi che hanno partecipato all'indagine dicono di aver provato inquietudine mentre assistevano alla violenza. Mentre il 10% ha detto che ha dovuto assumere comportamenti da adulto e accudire i familiari. Infine, un ulteriore 10% sostiene di essersi sentito aggressivo mentre il fatto avveniva.

I centri antiviolenza e le case di rifugio in Italia

I centri antiviolenza (Cav) e le case di rifugio sono dei luoghi sicuri per le donne che decidono di allontanarsi dal partner violento, anche con i propri figli. Luoghi dove possono trovare supporto psicologico, economico e un aiuto concreto per ricostruire la propria vita. Tuttavia, sono poche le donne che vi fanno ricorso. Infatti, nel 2014 solo il 5% delle donne vittime di violenza dichiara di essersi messa in contatto con un Cav a seguito di un episodio di violenza. Al contrario, il 94% non si è fatta aiutare da tali strutture. Fra queste, il 13% sostiene di non conoscerne l'esistenza e l'81% invece ha scelto, volontariamente o per ostacoli esterni, di non recarsi in alcuno di quelli presenti nella propria regione.

In Italia sono oltre 500 i centri antiviolenza e le case rifugio, presenti in tutte le regioni.

I dati rappresentano il numero totale di centri anti violenza e case rifugio registrati ufficialmente nelle regioni italiane all’ultimo aggiornamento avvenuto nel 2017.

FONTE: elaborazione openpolis - Con i Bambini su dati Istat
(ultimo aggiornamento: domenica 31 Dicembre 2017)

Nel nord-ovest Italia vivono il 27% delle donne residenti nella penisola e si trovano 16,4 cav per milione di donne. Nel nord-est dove è presente il 19,4% delle italiane e sono localizzati 22 cav ogni milione di donne. Nel centro, dove risiedono il 20% delle donne italiane, la quota scende a 12,4 cav per un milione. Nel sud, dove vivono il 23% delle donne residenti in Italia, il valore di cav ogni milione di donne è pari a 17,6. Infine, nelle isole dove è presente l’11% delle donne italiane, la quota sale fino a 27 cav ogni milione.

Complessivamente queste strutture sono più presenti nelle regioni del nord (256 in totale), che in quelle del centro (76) e del sud (213).

I Cav garantiscono anche laboratori per i minori e un sostegno alle genitorialità.

Al di là della presenza sul territorio, la questione su cui intervenire è che ancora troppe poche donne che vivono situazioni di violenza ricorrono ai Cav e alle case rifugio. Come abbiamo accennato in precedenza, ciò può essere dovuto sia  alla mancanza di informazioni e di consapevolezza sul servizio, sia a un sentimento di vergogna sociale nel recarsi in queste strutture, oltre alla paura di essere scoperte dal partner.

Elementi che rafforzano quanto emerso finora: è ancora molta la strada per combattere le violenze e soprattutto la mentalità che ne è alla base. E di quanto sia necessario intervenire per promuovere un cambiamento culturale e sociale che contrasti la visione della donna come subordinata all'uomo. Perché sono proprio gli stereotipi e i pregiudizi di genere ad alimentare comportamenti violenti, sia fisici che psicologici, e a rendere difficile per le donne riconoscere una violenza subita, chiedere aiuto, denunciare, allontanarsi dal partner.

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