Tutti i costi e i dubbi dell’accoglienza dei migranti in Albania Migranti

Il protocollo firmato tra Roma e Tirana per la costruzione di centri di prima accoglienza in Albania presenta costi considerevoli e molti problemi di natura legale. L’accordo tuttavia difficilmente potrà raggiungere gli obiettivi dichiarati.

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Il 6 novembre 2023 è stato firmato a Roma il protocollo Italia-Albania per il “rafforzamento della collaborazione in materia migratoria“, ratificato poi dal parlamento italiano lo scorso febbraio.

L’accordo prevede l’istituzione di due centri in Albania, uno per la primissima accoglienza (nella località di Shengjin) e l’altro con funzioni di Hotspot e centro di permanenza e rimpatrio (Cpr), a Gjader. I centri si trovano a circa 20 km l’uno dall’altro, nel nord del paese. Nelle intenzioni del governo queste strutture dovrebbero iniziare ad essere operative a partire dal prossimo 20 maggio, anche se inizialmente con una capienza ridotta.

Una relazione tecnica ricostruisce le spese a preventivo ipotizzando un costo di circa 650 milioni di euro in 5 anni, di cui solo una piccola parte riguarda però la gestione dei centri.

653 milioni il costo del protocollo Italia-Albania in 5 anni.

È evidente che si tratti di una spesa considerevole che tuttavia non sembra utile né per favorire i rimpatri, né per migliorare la logistica dell’accoglienza o l’integrazione di coloro che vedranno riconosciuta la loro richiesta di protezione internazionale.

Le persone accolte e i costi di gestione

Per calcolare i costi di gestione bisognerebbe intanto conoscere il numero di persone che saranno accolte in questi centri e per quanti giorni. Ad oggi tuttavia non è neanche chiaro quale sia il numero massimo di persone che potrebbero essere ospitate nelle due strutture.

Il governo infatti ha più volte sostenuto che in Albania saranno accolte 3mila persone al mese, per un totale di 36mila persone l’anno. In effetti anche il protocollo fa riferimento a questa cifra, indicandola però come limite massimo e non come la presenza media. Eppure come è noto, in particolare nei centri di prima accoglienza, il numero di persone accolte può variare significativamente. Infatti mentre a metà agosto 2023 il ministero dell’interno indicava in quasi 2.599 persone le presenze negli hotspot italiani, lo scorso 15 marzo, invece, questo numero arrivava ad appena 712.

Ma anche dando per buoni i numeri massimi del governo, queste cifre continuano a destare dubbi. Infatti, nella manifestazione d’interesse pubblicata dal ministero dell’interno per la gestione delle strutture, si parla di una capienza massima poco superiore a mille persone, di cui 880 nell’hotspot e 144 nel Cpr.

Sempre questo documento stima un costo massimo di 34 milioni di euro l’anno per la gestione delle due strutture: una cifra molto alta, anche se distante dai 650 milioni di costi complessivi.

Secondo la relazione tecnica però la spesa effettiva, calcolata sui costi storici per la gestione di strutture di questo tipo, dovrebbe aggirarsi interno ai 30 milioni di euro circa in 5 anni (4,4 milioni di euro nel 2024 e 6,5 milioni l’anno tra 2025 e 2028).

Gli altri costi del protocollo

Prendendo per buone queste cifre, rimangono oltre 600 milioni di euro che non riguarderebbero spese di gestione. Alcune di queste voci di costo sarebbero state forse simili se i centri fossero stati costruiti in Italia. Parliamo ad esempio dei costi per la realizzazione e la manutenzione delle strutture.

FONTE: elaborazione openpolis su dati relazione tecnica
(ultimo aggiornamento: mercoledì 27 Marzo 2024)

Altre invece sono chiaramente aggiuntive. Si tratta in particolare di 95 milioni di euro per il noleggio delle navi, di quasi 8 milioni di euro di assicurazioni sanitarie per operatori italiani in missione all’estero e di ben 252 milioni di costi per le trasferte dei funzionari del ministero dell’interno, della giustizia e della salute.

252 milioni di € il costo delle trasferte per i funzionari ministeriali nel corso di 5 anni.

Una cifra esorbitante, pari a una media di 138mila euro al giorno, necessaria a pagare viaggi, diarie, vitto e alloggio del personale interforze, dei funzionari prefettizi, di quelli del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), del personale sanitario di frontiera (Usmaf) e di quello dell’istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti (Inmp). Tutte spese che sarebbero state evitate se questo personale avesse lavorato nelle sue consuete sedi di lavoro, invece che all’estero.

Su altre voci di spesa infine risulta difficile valutare se e in che misura sarebbero state diverse nel caso in cui si fosse deciso di istituire nuove strutture in Italia. Questo tuttavia è più che sufficiente per chiedersi se si tratti di una spesa effettivamente necessaria e per quale scopo.

Restano poco chiari gli obiettivi dell’accordo

Certo 650 milioni di euro sono una cifra consistente. Tuttavia per valutare una spesa pubblica bisogna innanzitutto considerare l’obiettivo che ci si pone e la capacità di quella misura di raggiungerlo.

[L’accordo, ndr.] si pone sostanzialmente tre obiettivi: contrastare il traffico di esseri umani, prevenire i flussi migratori illegali e accogliere solamente chi ha davvero diritto alla protezione internazionale.

Dai termini dell’accordo tuttavia non è chiaro come la creazione di due centri in Albania possa contrastare il traffico di esseri umani e prevenire i flussi migratori illegali. Quanto ad accogliere solamente chi ha davvero diritto alla protezione internazionale la questione si porrebbe negli stessi termini anche se i centri fossero costruiti in Italia.

Le autorità italiane, al termine delle procedure eseguite in conformità alla normativa italiana, provvedono all’allontanamento dei migranti dal territorio albanese.

Infatti se al termine delle procedure di esame la domanda dovesse essere accolta i titolari di protezione dovranno essere portati in Italia. Ma lo stesso avverrebbe anche nel caso in cui si proceda effettivamente al rimpatrio di queste persone, operazione che, a quanto sembra, dovrebbe comunque avvenire dall’Italia. Infine non può essere trascurata la possibilità che un richiedente a cui è stata negata la protezione e per cui sono state avviate le procedure di rimpatrio debba essere a un certo punto rilasciato per lo scadere dei termini massimi di trattenimento in un Cpr. Infatti, è bene tenere presente che meno della metà delle persone trattenute in un Cpr nel 2022 è stato poi effettivamente rimpatriato. Il rilascio tuttavia non potrebbe avvenire in Albania e quindi sarebbe comunque necessario portare queste persone in Italia, malgrado la loro posizione irregolare.

E questo ammettendo che nei centri albanesi arrivino solo persone che possono essere effettivamente ospitate in queste strutture. Infatti secondo la normativa italiana le procedure accelerate di frontiera possono essere adottate solo nei confronti di uomini adulti, provenienti da paesi considerati “sicuri” che non si trovino in una condizione di vulnerabilità.

Perché questo avvenga tuttavia sarà necessario svolgere complesse operazioni di identificazione a bordo delle navi italiane già prima che le persone vengano portate a terra. È difficile però immaginare che queste procedure possano svolgersi in modo ordinato garantendo effettivamente una corretta ripartizione. Valutare la vulnerabilità di una persona infatti richiede tempo, così come stabilirne l’età esatta nei casi dubbi.

Foto: governo.it

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