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L’agricoltura è un settore fondamentale per via del suo ruolo di primo piano nella filiera alimentare e produttiva. Oggi tuttavia si trova ad affrontare sfide senza precedenti, come i cambiamenti climatici, la globalizzazione e i nuovi modelli di consumo. Ma innanzitutto l’agricoltura sta affrontando delle sfide a livello demografico. Sta cambiando aspetto, subendo delle trasformazioni strutturali.

Si possono osservare nel nostro paese due fenomeni paralleli: da una parte, il settore agricolo si sta sistematizzando, e conseguentemente le singole aziende stanno crescendo e si stanno formalizzando, anche a livello giuridico e di rapporti lavorativi. Un fenomeno che non è esente da una serie di problematiche, in primis le condizioni di molti lavoratori stagionali, esposti a forme di sfruttamento, ma anche la pressione sulle piccole e medie imprese. Dall’altra parte, in termini numerici prevale ancora una forma familiare, di piccole dimensioni e maggiormente informale.

In questo contesto, i giovani e le donne sono ancora poco rappresentati (i giovani in maniera particolare nel mezzogiorno e le donne maggiormente nel nord del paese). Meno di un terzo delle aziende è guidato da donne e meno di una su 10 ha come manager una persona con meno di 40 anni. Tuttavia non mancano, da questo punto di vista, dei segnali di progressivo miglioramento.

Persone e aziende: la dimensione demografica

Secondo i dati del settimo censimento permanente dell’Istat, nel 2020 ci sono in Italia più di un milione di aziende agricole. Un numero certamente elevato, che tuttavia segna un calo rispetto ai decenni scorsi. Rispetto al 1982 si sono persi quasi due terzi di tutte le imprese agricole del nostro paese (-63,8%). 

Solo rispetto al 2010, la riduzione è pari al 30%. Più marcata in Italia rispetto agli altri grandi paesi dell’Unione europea: in Francia si è perso il 20,4% delle imprese, in Germania il 12,1% e in Spagna il 7,6%.

1,13 milioni le aziende agricole in Italia nel 2020.

Meno aziende quindi, ma questo non deve far pensare a un declino. Infatti se da una parte il numero di strutture è calato, parallelamente ne è aumentata l’estensione. Paragonando il 2020 al 2010, vediamo che la superficie agricola utilizzata (Sau) è diminuita di appena il 2,5%, mentre il numero di imprese si è ridotto del 29,9%. Conseguentemente si può osservare che la Sau media per azienda è, al contrario, aumentata. Nel 2020 è pari a 11,1 ettari, mentre dieci anni prima era di 8, oltre 3 ettari in meno. Nel 1982 era addirittura pari a 5,1, meno della metà rispetto all’ultimo aggiornamento. Le imprese sono quindi mediamente più estese: molte strutture più piccole stanno scomparendo, a discapito delle più grandi. Nonostante ciò l’Italia ha comunque aziende agricole mediamente molto più piccole rispetto ad altri stati membri dell’Unione europea: in Spagna la dimensione media è di 26,1 ettari e in Germania e Francia addirittura di 63,1 e 68,7 rispettivamente.

Oltre all’estensione media, anche a livello di dimensioni economiche si osserva un marcato incremento. Tra il 2010 e il 2020 esso è stato pari al 14,5%, come riporta l’ufficio statistico dell’Unione europea (Eurostat): da circa 49 a più di 56 miliardi di euro di valore. Una crescita pronunciata, seppur inferiore alla media Ue (+25%). Risulta elevato anche il valore aggiunto dell’agricoltura in Italia, una delle ragioni per cui il nostro paese, come illustra il report 2022 dell’alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis), si posiziona al terzo posto in Europa, dopo Spagna e Danimarca, per avanzamento rispetto al secondo obiettivo dell’Agenda 2030, “Porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile”.

L’imprenditoria agricola sta subendo un processo di concentrazione.

Quello che sta avendo luogo nel nostro paese, è quindi un processo di progressiva concentrazione dell’imprenditoria agricola. Le aziende a conduzione familiare, storicamente le più diffuse, sono anch’esse in calo. Mentre aumentano visibilmente le imprese di altro status giuridico, soprattutto le società di capitali. Le prime sono diminuite del 32%, mentre le seconde sono aumentate del 42,4%, nel periodo compreso tra 2010 e 2020. Si sono inoltre dimezzate le imprese più piccole, con meno di 1 ettaro di Sau (-51,2%), e sono aumentate del 17,7% quelle molto grandi, con più di 100 ettari.

Nonostante ciò, le piccole imprese agricole e soprattutto quelle familiari costituiscono ancora la componente più significativa del totale. Al 2020, il 93,5% delle imprese rientra in questa tipologia, anche se la quota varia da zona a zona, registrando i valori più elevati al sud (97,6%) e i più bassi nel nord-ovest (86,7%).

I dati si riferiscono al numero totale di aziende agricole (di qualsiasi forma giuridica) ripartite a livello regionale.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Istat
(pubblicati: martedì 9 Agosto 2022)

La Puglia è la regione italiana con più aziende in termini assoluti (più di 191mila in totale), seguita dalla Sicilia (circa 142mila) e, a distanza, dalla Calabria (poco meno di 96mila). È quindi nel mezzogiorno che si trova il maggior numero di imprese agricole (il 57,6% del totale nazionale).

Per quanto riguarda le forme di queste imprese, l’incidenza più elevata di quelle a conduzione familiare si registra in Molise e in Calabria, con oltre il 98%. Ultime invece la Lombardia con l’80% e l’Emilia-Romagna con l’83%. Seppur numerose, le aziende agricole a conduzione individuale o familiare sono tuttavia le più piccole. Mediamente raggiungono gli 8,6 ettari, contro i 46,4 delle imprese appartenenti a tutte le altre forme giuridiche. Questo è il motivo principale per cui  la loro incisività nel panorama agricolo, evidente sul piano del numero di aziende in termini assoluti, va ridimensionata in termini di manodopera.

Nella manodopera non familiare incidono molto i lavoratori stagionali.

Se il 98,3% delle strutture impiega manodopera familiare (nel 2010 erano il 98,9%), quest’ultima costituisce i due terzi delle giornate di lavoro (68%) e appena più della metà del personale impiegato (53%). Tale sproporzione tra la quantità di lavoro e il personale può essere imputata al ricorso, molto frequente nell’ambito della manodopera non familiare, ai lavoratori stagionali. Dai dati emerge come quella saltuaria sia la forma più frequente, essendo presente nel 68% delle aziende che fanno uso di manodopera salariata (nella Provincia Autonoma di Trento e in Puglia supera l’80%). Mentre nel caso della forma continuativa, la quota a livello nazionale scende al 39%. 

Il lavoro irregolare ha un’incidenza molto forte nel settore agricolo proprio per la sua caratteristica di stagionalità, che favorisce il ricorso a contratti di breve durata. Quasi un quarto (24,4%) di tutti i dipendenti agricoli lavorano irregolarmente. In molti casi, specialmente quando sono coinvolti lavoratori extra-comunitari, si tratta di condizioni lavorative svantaggiose, che a volte sfociano in una vera e propria forma di sfruttamento: il caporalato.

A queste dinamiche si aggiunge poi il fatto che, rispetto ai decenni scorsi, la manodopera di tipo familiare si è fortemente ridotta. D’altra parte è cresciuta invece quella non familiare, segno di una evoluzione verso forme gestionali più strutturate, dotate di più forza lavoro salariata. Un fatto che si ricollega ai sopracitati cambiamenti delle forme giuridiche delle aziende.

I macrofenomeni che possiamo osservare sono quindi una concentrazione delle imprese e una polarizzazione. Meno strutture, più grandi e redditizie, caratterizzate da una maggiore formalizzazione dei rapporti di lavoro, da una parte. A scapito delle aziende più piccole, sempre meno numerose e in difficoltà, gestite più informalmente, a livello familiare.

Le donne in agricoltura: dati e sfide per il futuro

Chi lavora la terra nel 2020? Stando ai rilevamenti Istat, la manodopera agricola è composta da più di 2,75 milioni di persone: anche in questo caso si può osservare un calo, pari al 29% rispetto al 2010 (quando erano quasi 3,9 milioni). In Italia lavora nel settore agricolo il 3,4% degli occupati, -0,4 punti percentuali rispetto al 2005. Una valore inferiore alla media europea (4,2%), simile a quello registrato dalla Spagna (3,5%) e superiore rispetto a Francia e Germania (rispettivamente 2,5% e 1,2%).

Per quanto riguarda esclusivamente la componente femminile, risulta impiegato in questo ambito circa il 2% delle lavoratrici italiane, secondo la banca mondiale, i cui dati sono aggiornati al 2021. Come nella maggior parte degli altri paesi, anche questo dato è in calo, se consideriamo che nei primi anni ‘90 superava l’8%. Le donne costituiscono comunque una componente fondamentale della forza lavoro agricola.

Diminuisce l’incidenza delle donne in agricoltura.

In Italia esse hanno un peso significativo anche se, rispetto al decennio scorso, hanno un’incidenza più bassa sul totale della manodopera rispetto ai colleghi di sesso maschile. Nel 2010 infatti ne costituivano circa il 37%, nel 2020 il 30%. Sono passate da 1,4 milioni a poco più di 800mila: un calo pari al 42%. Nel caso degli uomini la riduzione ha avuto entità molto inferiore: -21%.

Pur diminuendo numericamente tuttavia le donne lavorano più regolarmente. L’intensificazione delle attività agricole è un fenomeno generalizzato: le giornate pro capite sono passate da 65 nel 2010 a 78 nel 2020 (+20%). Ma per le donne l’aumento è stato più marcato: +30%, rispetto al 13,9% degli uomini. Rimane comunque un divario importante tra le 65 giornate standard lavorate in un anno dalle agricoltrici e le 83 lavorate dai colleghi uomini.

18 giornate lavorative in più lavorate dagli uomini in agricoltura, rispetto alle donne, nel 2020.

È interessante rilevare che il divario appare molto più pronunciato rimanendo in ambito familiare che a livello di lavoro salariato. Nel primo caso infatti la differenza è di quasi 34 giornate lavorative annue (gli uomini ne fanno 110,6 e le donne 76,7), mentre nel secondo è di meno di 5. Ciononostante bisogna evidenziare che 10 anni prima, nel 2010, non vi era alcuna differenza in questo senso tra i lavoratori agricoli salariati.

I dati si riferiscono ai lavoratori agricoli, in termini assoluti, distinti per genere, per periodo (2010 e 2020) e per tipologia di manodopera (familiare e non familiare).

FONTE: elaborazione openpolis su dati Istat
(pubblicati: martedì 9 Agosto 2022)

Un altro aspetto della progressiva formalizzazione del lavoro femminile in ambito agricolo è il fatto che, nonostante a oggi le donne siano ancora più frequentemente impiegate stagionalmente rispetto agli uomini, tali proporzioni hanno registrato un notevole miglioramento.

Nel complesso, le agricoltrici salariate lavorano più frequentemente in modo stagionale. Il 41% delle lavoratrici agricole lavora meno di 30 giornate e appena il 16% ne lavora più di 200, mentre per gli uomini questo scarto è inferiore (il 28% lavora meno di 30 giorni, il 29% più di 200). Tuttavia tali divari si sono almeno in parte colmati rispetto al 2010, quando era stagionale il 61% delle lavoratrici (18,3 punti percentuali in più rispetto ai colleghi uomini).

Notiamo che  quella del lavoro femminile è soprattutto una questione di rilievo del ruolo rivestito. Spesso le donne incontrano una serie di barriere che impediscono loro di ricoprire ruoli manageriali, di guida delle imprese. Accade in vari settori e l’agricoltura non è certo un’eccezione: la banca mondiale parla anche per questo settore di un vero e proprio tetto di cristallo

È però interessante notare che l’Italia ha fatto sostanziali passi in avanti, ricoprendo uno dei primi posti in Europa (dopo Lettonia, Lituania, Romania ed Estonia), come rileva la commissione europea. Le donne sono infatti a capo del 31,5% delle aziende, seppur con una consistente disparità tra le regioni settentrionali e quelle meridionali.

I dati si riferiscono alla percentuale di aziende agricole che hanno un conduttore di genere femminile, rispetto al totale.

FONTE: elaborazione openpolis – Aic su dati Istat

In alcune regioni il numero di aziende guidate da donne sfiora il 40% del totale – una proporzione notevole, considerato che, come abbiamo già visto, costituiscono in media il 30% della forza lavoro – in particolare nel caso del Molise e della Campania. In altri casi si attesta su quote molto più basse, in particolare nelle due province autonome del Trentino, dove oscilla tra il 14% e il 15%. Comunque a livello nazionale si tratta di un dato che certamente rende ottimisti: quasi un terzo delle imprese agricole è guidato da donne. In alcuni paesi europei tra cui la Germania e i Paesi Bassi la quota non arriva al 10%. Ma anche in Italia la presenza femminile nel settore è ancora, nel complesso, relativamente debole.

I giovani agricoltori e il ricambio generazionale nelle aziende

Aprire l’agricoltura alle generazioni più giovani è un modo per investire sul futuro del settore. In primo luogo, le persone più giovani sono più consapevoli degli effetti negativi dei cambiamenti climatici e si impegnano maggiormente per contrastarli rispetto ai cittadini di altre generazioni. Inoltre, i giovani sono più aggiornati da un punto di vista tecnico e tecnologico e sono quindi più facilmente protagonisti di pratiche innovative.

Come evidenzia l’istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (Ismea), essi guidano le aziende più innovative, digitalizzate, multifunzionali e produttive del paese. E mediamente sono anche più istruiti: in quasi un quinto dei casi hanno una laurea o un diploma universitario, il doppio rispetto a quanto rilevato presso le aziende guidate da persone di età più avanzata. Oltre a seguire più frequentemente corsi di formazione agricola. 

Gli under 40 guidano il 9% circa delle imprese agricole del nostro paese, ma costituiscono quasi il 15% dei capi azienda che hanno seguito corsi di formazione appositi e il 20% di coloro che applicano le pratiche biologiche (sfiorando il 33% in Campania). Nel complesso, guidano anche aziende mediamente più grandi, per il 16% della Sau totale. Un fenomeno che si rileva anche a livello europeo.

Certamente, non hanno una presenza solida nel settore, rispetto alle persone di età più avanzata – spesso a causa di una serie di barriere che incontrano nel loro percorso: tra le altre, la difficoltà di accesso alla terra e al credito, i prezzi elevati, le basse potenzialità di profitto e la scarsa assistenza. Altri fattori sono anche la carenza di servizi essenziali nelle zone rurali, che le rende meno attraenti, la scarsa disponibilità di terreno e gli elevati costi di avviamento. Tuttavia, come rileva Unioncamere, in 5 anni, tra il 2015 e il 2020, c’è stato un considerevole incremento a livello di imprenditorialità (+14%, considerando in questo caso gli under 35). Segno di una nuova attrattività, tra i giovani, del mondo agricolo.

Sempre grazie alle ultime rilevazioni Istat, possiamo ricostruire che gli imprenditori agricoli giovani (qui consideriamo le persone di età inferiore ai 45 anni, per i quali è possibile anche una disaggregazione basata sul genere) sono in totale poco più di 152mila in Italia, nel 2020. Ovvero il 13,5% del totale, una quota che sale al 16,9% nella macroarea del nord-ovest e che scende al 12% nel sud. Anche in questo caso la situazione è eterogenea, variando ampiamente da regione a regione.

I dati si riferiscono alla quota di aziende che ha un capo di età inferiore ai 45 anni, per regione.

FONTE: elaborazione openpolis – Aic su dati Istat
(pubblicati: martedì 9 Agosto 2022)

Sono tre i territori in cui almeno il 20% delle aziende agricole è guidato da una persona con meno di 45 anni. Parliamo di Valle d’Aosta (21,9%), Sardegna (21,3%) e Provincia Autonoma di Trento (21%). Valle d’Aosta a Trento in particolare hanno anche più del 4% di conduttori di età inferiore ai 29 anni. Ultime invece per quota di capi giovani la Puglia e l’Abruzzo, entrambe con il 10,3%.

Promuovere il ricambio generazionale in agricoltura è uno degli obiettivi della Pac.

Incrementare la presenza di giovani nelle attività rurali è un obiettivo riconosciuto anche dalla politica agricola comune (Pac) europea. Essa in particolare intende facilitare il ricambio generazionale all’interno delle aziende e a questo scopo prevede di supportare 380mila giovani nel mondo agricolo, nel corso del quinquennio 2023-2027. Tra tutti gli stati membri, l’Italia è quello che ne avrà di più, in proporzione: il 21,2% del totale.

A oggi infatti sono poche le aziende agricole nel nostro paese in cui il capo ha preso il controllo della struttura da poco – con ciò si intende, sempre in riferimento al censimento di Istat, da meno di tre anni rispetto alla data di rilevazione. Parliamo in totale di poco più di 55mila strutture, di cui circa il 54% si trova nel mezzogiorno. Nel 74% dei casi comunque a prendere il controllo dell’azienda è un familiare o parente del conduttore precedente. Nel complesso le aziende che hanno avuto un ricambio recente (meno di 3 anni dalla rilevazione) sono il 4,9%. La quota risulta particolarmente elevata nelle isole (5,7%) e nel nord-est (5,6%), mentre è bassa al sud (4,2%). Le differenze tra le macroaree sono tuttavia poco marcate e si può osservare che mediamente il 75% delle imprese non ha cambiato conduttore negli ultimi 10 anni.

È interessante infine notare che, nonostante le oggettive difficoltà, i dati relativi alle iscrizioni e alle cessazioni di nuove aziende agricole evidenziano un miglioramento: il saldo rimane negativo nel 2021 (l’ultimo aggiornamento), con una perdita pari a 1.786 imprese, ma il dato segna comunque un miglioramento rispetto al 2020, quando la cifra era stata più che doppia (4.090).

Tra agricoltura e intersezionalità: le giovani conduttrici d’azienda

Avendo parlato di giovani e di donne, è interessante approfondire brevemente la questione delle giovani agricoltrici. Questa categoria di persone, allo stesso tempo di genere femminile e di giovane età, è ancora oggi doppiamente penalizzata. Se andiamo ad analizzare i dati relativi alla presenza di under 45 divisi per genere, vediamo infatti che emerge un divario ulteriore.

Se nel caso degli imprenditori uomini il 14% è di età inferiore ai 45 anni, questo è vero per appena l’11% delle donne. Un divario non molto marcato (3 punti percentuali di differenza) ma comunque consistente.

40.530 le conduttrici di azienda agricola under 45 nel 2021, il 3,6% di tutti i conduttori.

Si tratta di un fenomeno che si può rilevare anche a livello europeo. I giovani di età inferiore ai 45 anni, mediamente nell’Unione, guidano appena un’impresa agricola su cinque. Isolando le donne, vediamo che le imprenditrici fino a 45 anni non raggiungono il 6%. Il divario più pronunciato è nella categoria dei giovani di età inferiore ai 25 anni: gli uomini di questa età conducono appena lo 0,6% delle aziende agricole, ma nel caso delle donne la quota scende allo 0,2%: due terzi in meno. Mentre nelle fasce di età più avanzate, comunque caratterizzate da un divario di genere, lo scarto è più contenuto.

Nel nostro paese, la regione con il maggior numero di giovani imprenditrici agricole è la Sicilia con 5.783. Mentre come incidenza sul totale il record è quello registrato dalla Sardegna, dove il 17% delle imprenditrici di sesso femminile ha meno di 45 anni d’età. È proprio quella delle isole la macroarea dove si rileva la maggiore incidenza di giovani donne alla guida delle aziende agricole (4,3%). Seguono centro e nord-ovest con rispettivamente il 3,9% e il 3,7%. Ultima tra le macroaree è il nord-est con il 2,5%. Guardando invece al dato a livello nazionale, le donne under 45 costituiscono il 3,6% del totale degli imprenditori agricoli. Un dato inferiore alla media europea, che si attesta al 5,7%.

I dati si riferiscono alla quota di aziende agricole guidate da una donna di età inferiore ai 45 anni, per macro-area. Sono escluse dal conteggio le proprietà collettive.

FONTE: elaborazione openpolis – Aic su dati Istat

Foto: Flo Plicenza

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