Cresce il ruolo delle regioni nella politica di oggi Referendum

Sono sempre più centrali nello stabilire l’agenda della politica nazionale: dal dibattito sull’autonomia differenziata, al loro peso nella futura scelta per il nuovo presidente della repubblica. Perché molti politici nazionali lasciano il parlamento per farsi eleggere in regione.

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Se l’attuale fase politica si sta contraddistinguendo per una forte instabilità partitica, il ruolo delle regioni appare invece in costante ascesa.

Il dibattito sull’autonomia differenziata ha dimostrato quanto queste istituzioni abbiano una crescente centralità nello stabilire l’agenda politica del paese. Non a caso Salvini ha indicato la via dei consigli regionali come quella da percorrere per giungere al referendum abrogativo sulla legge elettorale.

In questo scenario, come confermato dall’elezione di Donatella Tesei in Umbria, le tornate elettorali regionali hanno sempre più peso nell’influenzare gli equilibri politici a livello nazionale. Lo avranno ancora di più in prospettiva 2022, con l’elezione del nuovo presidente della repubblica. Elezioni che stanno diventando anche il campo di prova per nuove alleanze partitiche, vedi quella tra il Movimento 5 stelle e il Partito democratico, e un piano b per molti politici nazionali che decidono di lasciare il parlamento per incarichi in giunte regionali. Ultima in ordine di tempo proprio la senatrice Tesei.

Il referendum sulla legge elettorale

Tra i temi più caldi dell’attuale dibattito politico c’è sicuramente quello sulla legge elettorale.

La necessità di riformare il rosatellum bis, approvato nella scorsa legislatura, sta portando tutti i principali partiti nazionali a posizionarsi sull’argomento. La Lega guidata da Matteo Salvini spinge fortemente per il passaggio ad un maggioritario puro. Ma non trovandosi più in una posizione di governo, l’ex ministro dell’interno sta spingendo per giungere all’abrogazione della parte proporzionale dell’attuale legge elettorale attraverso un referendum popolare.

È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.

La costituzione prevede due possibilità per chiedere l’indizione di un referendum abrogativo: o attraverso la raccolta di 500.000 firme di elettori o attraverso il pronunciamento di 5 consigli regionali. Trovandosi alla guida di 11 delle 20 regioni italiane, il centrodestra, con il suo attuale leader Matteo Salvini, ha deciso che quest’ultima è la strada migliore da percorrere:

Se 5 Regioni a maggioranza assoluta chiedono un referendum, la proposta non si sottopone a un voto sulla piattaforma Rousseau, ma tra i cittadini avere un sistema elettorale in Italia totalmente maggioritario. Chi vince un voto in più vince, collegio per collegio come i sindaci

Dopo il via libera di Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Piemonte quindi il centrodestra, guidato da Roberto Calderoli ha depositato il 30 settembre il quesito in cassazione. Richiesta di referendum che nel frattempo è stato deliberata anche da altre 3 regioni: Abruzzo, Basilicata e Liguria.

La scelta di coinvolgere le regioni in questo processo è politica. Un tentativo da parte del centrodestra di far capire il suo peso nel paese, guidando oltre la metà delle regioni italiane, tra cui alcune delle più importanti al livello economico (Lombardia e Veneto su tutte). Una scelta che dà ulteriore centralità a questi organi, e che conferma il crescente ruolo proprio delle regioni nello stabilire l’agenda politica del paese.

1 su 67 i quesiti referendari proposti dalle regioni dal 1946 ad oggi.

Nella storia repubblicana in una sola occasione il referendum abrogativo è stato indetto su iniziativa delle regioni. Un unico caso che però è il più recente, risale al 2016, e che in un certo senso conferma quanto detto fino ad ora. Se il referendum verrà calendarizzato sarà la seconda occasione in pochi anni in cui le regioni hanno contribuito a dettare l’agenda referendaria nazionale. Una cosa che non era mai successa prima.

Il dibattito sulle autonomie

Non è la prima volta in questa legislatura che le regioni finiscono al centro del dibattito. Era già successo prolungatamente durante il governo Conte I, in seguito delle iniziative intraprese da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per ottenere un’autonomia differenziata.

Dopo aver sottoscritto tre accordi preliminari nella scorsa legislatura infatti, il negoziato è proseguito anche nell’attuale ampliando il quadro delle materie da trasferire rispetto a quello originariamente previsto. Nel frattempo anche altre regioni hanno intrapreso il percorso per la richiesta di condizioni particolari di autonomia: Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania. Una serie di eventi che hanno fatto diventare la materia una prerogativa dei due governi presieduti da Giuseppe Conte.

Nella Nota di aggiornamento al Def 2019 recentemente approvata dal nuovo governo 5stelle-Pd viene infatti riferito l’impegno del governo a portare avanti il processo di attuazione del federalismo differenziato. In particolare, come anche confermato dal ministro per gli affari regionali Boccia in commissione il 17 ottobre scorso, l’intenzione del governo è di presentare un disegno di legge collegato alla manovra per favorire l’autonomia differenziata.

Con la Lega ora all’opposizione, partito che guida anche Veneto e Lombardia, il tema dell’autonomie è destinato a tornare d’attualità.

Una tematica molto calda, persino inserita nel programma di governo dell’esecutivo Conte II, che è più volte finita al centro di scontri tra i vari partiti in parlamento. La partita è certamente ancora aperta, e con la Lega ora all’opposizione, partito storicamente favorevole ad un sistema sempre più federalista, è immaginabile che la discussione tornerà accesa. Anche perché 2 delle 3 regioni che hanno avviato l’iter, Lombardia e Veneto, sono guidate proprio dalla Lega.

Le prossime elezioni regionali

Il voto di ieri ha sancito la vittoria del centrodestra nelle elezioni in Umbria, con l’elezione di Donatella Tesei a presidente della giunta regionale. Un esito a tratti scontato, visto soprattutto il risultato delle europee nella regione, ma che ha avuto comunque una certa importanza. Da un lato perché ha confermato i numeri del centrodestra, sempre di più la coalizione maggioritaria del paese, dall’altro perché è stato il primo banco di prova per l’alleanza elettorale tra il Movimento 5 stelle e il Partito democratico.

Da questo punto di vista quindi le elezioni regionali sono un laboratorio importante per la politica nazionale, e in una fase storica in cui il consenso politico è molto volatile, rappresentano un dato ufficiale con cui tastare il polso dei cittadini molto più ricorrente delle elezioni nazionali.

In un periodo in cui il consenso è volatile, le elezioni regionali sono appuntamenti fondamentali per valutare la forza dei partiti.

Proprio per questo motivo il 2020 sarà un test da non sottovalutare per tutte le forze politiche nazionali, soprattutto per monitorare il consenso elettorale dell’attuale governo 5stelle-Pd. L’anno prossimo si terranno infatti le elezioni regionali in Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Puglia, Campania e Veneto. Tutte, tranne quest’ultima, sono attualmente guidate dal centrosinistra, ed ulteriori vittorie del centrodestra avrebbero delle evidenti ripercussioni anche sugli instabili equilibri nazionali.

Le elezioni del presidente della repubblica nel 2022

L’attuale esecutivo 5stelle-Pd nasce, tra le altre cose, con la volontà di voler arrivare fino al 2022, per poter così eleggere il nuovo presidente della repubblica. L’anomala alleanza tra due partiti storicamente avversari basa infatti molto della sua forza sul voler evitare le elezioni anticipate. Un evento che con molta probabilità porterebbe ad un parlamento a maggioranza centrodestra, che quindi avrebbe così un peso non da poco nel trovare il successo di Mattarella.

Il presidente della repubblica è eletto dal parlamento in seduta comune dei suoi membri. All’elezione partecipano tre delegati per ogni regione eletti dal consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato

Come noto però, oltre al parlamento in seduta comune, contribuiscono all’elezione del presidente della repubblica anche i delegati delle regioni: 58 consiglieri regionali (3 per regione e 1 per la Valle d’Aosta). Proprio per questo motivo le elezioni regionali meritano particolare attenzione, e possono rappresentare una variabile determinante per il voto del 2022.

Vincere le elezioni regionali vuole anche dire maggiore peso nell’elezione del presidente della repubblica nel 2022.

Come detto attualmente il centrodestra controlla oltre metà dei consigli regionali, nuove vittorie elettorali le permetterebbero quindi di ulteriormente incrementare le possibilità di influire sulla scelta del nuovo presidente della repubblica. Anche la partita per il Quirinale quindi mette le regioni in una posizione decisiva per gli equilibri nazionali.

Un ruolo che è solo destinato a crescere quando, e se, verrà realmente implementato il taglio del numero di parlamentari. Se non si predispone quindi anche una riforma dell’articolo 83 della costituzione il peso dei 58 consiglieri regionali nella scelta del presidente della repubblica è desinato a crescere.

Chi lascia il parlamento per andare in regione

In questo scenario le regioni stanno diventando un luogo sempre più attrattivo in cui fare politica. Da inizio legislatura 13 tra deputati e senatori si sono dimessi per avere assunto un incarico incompatibile con il mandato parlamentare: 7 alla camera e 6 al senato. Tra questi, 9 lo hanno fatto perché nel frattempo sono stati eletti/nominati in giunta e/o consiglio regionale. Ultima in ordine di tempo proprio la neo eletta governatrice della regione Umbria, Donatella Tesei (Lega), che ora dovrà quindi dimettersi dal Senato.

9 i parlamentari che hanno lasciato camera e senato per un incarico in regione.

Il primo è stato Massimiliano Fedriga (Lega) che da neo deputato dalla Lega ha gareggiato e vinto le elezioni regionali in Friuli-Venezia Giulia. Nell’estate del 2018 poi sia Claudia Maria Terzi (Lega) che Lara Magoni (Lega) hanno lasciato rispettivamente l’incarico di deputata e senatrice dopo essere state nominate in giunta dal governatore lombardo Fontana (Lega).

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Nel 2019 sono seguite poi le dimissioni di Maurizio Fugatti (Lega), Stefania Segnana (Lega) e Giulia Zanottelli (Lega), che hanno optato rispettivamente per le cariche di presidente e di consigliere della provincia autonoma di Trento, di Marco Marsilio (Fdi), diventato governatore dell’Abruzzo, e infine di Christian Solinas (PSd’Az), eletto presidente della giunta regionale sarda.

Sono stati considerati solamente i parlamentari che si sono dimessi per incompatibilità. Colori quindi che sono andati a ricoprire un incarico in giunta/consiglio regionale, nel consiglio superiore della magistratura o al parlamento europeo.

FONTE: dati ed elaborazione openpolis

Con le prossime elezioni regionali è immaginabile che questo numero sia destinato a salire. Solamente per citare un esempio la candidata della Lega per le elezioni regionali in Emilia-Romagna è Lucia Borgonzoni, attualmente senatrice. Una scelta quindi molto comune, con le regioni che danno sempre più l'impressione di essere un luogo in cui ci sono maggiori possibilità di impattare a livello politico rispetto al parlamento. In un contesto storico in cui proprio camera e senato si trovano sempre più svuotate dalle loro prerogative.

 

Foto credit - Facebook ufficiale Giovanni Toti

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