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La lunga notte di Marchionne
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(19 gennaio 2011) - fonte: Il Fatto Quotidiano - inserita il 19 gennaio 2011 da 31
La vendetta è un piatto che si può mangiare caldo o freddo. L’importante è dare un bel pugno al piatto della bilancia che – ti dicono – sarà d’ora in poi l’equilibrata e saggia politica industriale della Fiat dopo lo scontro, dopo la lacerazione, dopo la paura. Molti, anche tra coloro che non hanno condiviso il grido di guerra di Marchionne, si aspettavano pace, dopo la vittoria. Tanto più che è una vittoria piccola (9 voti su 5000). Dovrebbe suggerire anche a uomini eccezionali come Marchionne un minimo di cautela, un vago segnale di distensione.L’uomo eccezionale (“Negli Usa gli ho salvato io la pelle, qui la pelle vogliono farla a me”) non ci pensa neanche. Rinnova a piena voce il suo grido di guerra (“o così o me ne vado”) con un linguaggio che lui pensa sia chiaro e invece è brutale. Notare che Marchionne parla sempre in prima persona, ma il suo “io” vuol dire Fiat.
Sto parlando della lunga e accurata intervista di Ezio Mauro (“La Repubblica”, 18 gennaio 2011) all’amministratore delegato della Gruppo per ora torinese.
Proverò ad analizzare il linguaggio Marchionne. Ha le seguenti caratteristiche: non esiste la terra di mezzo; chi dissente è un nemico, con secondi fini nascosti e pericolosi; lui (Marchionne) è un denigrato e perseguitato dalla cattiva stampa dei sindacati (si astiene dal dire, come “Il sole 24 ore ” due giorni fa, degli “Intellettuali parrucconi”). E tutto ciò che resta fuori dalla sua riforma è terra inutile di non produzione, di non competitività.
Uso, come esempio, l’inizio in successione di molte risposte, tenendo conto di un fatto: ogni domanda gli dava l’occasione di accennare alla pacificazione.
Vediamo. “Non capisco… sono allibito… cercate il pelo nell’uovo … posso togliere [dalla catena di montaggio, ndr] i lavoratori con i baffi… la Fiom, un capolavoro mediatico di mistificazione… noi non siamo fessi… lei dica come vuole, ma la Fiom è scesa in guerra non per i diritti… eravamo sopra una torre di Babele…in Italia siamo impantanati fino al collo … mi sono accorto di non avere alcun credito in Italia … volevo rompere l’ingessatura … guardi, io non ho mai fatto un investimento di così pessima qualità per l’azienda come quelli di Mirafiori, di Pomigliano… in qualsiasi parte del mondo mi avessero sottoposto un accordo con queste condizioni, mi sarei alzato e me ne sarei andato….”
Ciò che impressiona, qui, non è la rudezza del guerriero, ma il disprezzo per l’avversario e l’idea che il lavoro sia plasmabile come la plastilina. Ciò che conta è la forza delle mani che si assumono il compito di mettere finalmente a posto le cose.
Un linguaggio così suggerisce di non scherzare troppo con l’idea di togliere dalla catena di montaggio gli operai con i baffi. Non è detto. Vi domanderete se conviene ad un capo azienda che ha vinto per poco, ma ha pur vinto, in un mondo di paura e di isolamento del lavoro, di cassa integrazione che sta per esaurire i fondi (pubblici) disponibili e che alla Fiat riformata continuerà per mesi, mantenere un clima così deliberatamente conflittuale.
Vi domanderete come mai, subito dopo l’attacco più o meno a tutti (in modo che i sindacati a lui favorevoli non si facciano troppe illusioni) descrive se stesso come il genio maledetto della riforma industriale, una specie di Caravaggio, inseguito da gente cattiva animata da “ideologia” (“Mi fa incazzare che mi chiamino manager “canadese”, per dipingermi addirittura come “anti-italiano”).
Il top manager della Fiat descrive come inutile, non competitivo, non produttivo, impossibile il lavoro italiano – e dunque i suoi operai – , mentre il presidente Obama per la Chrysler e per il megaprestito statunitense lo ha scelto come uomo-Fiat, non come signor Marchionne che si trovava a passare da Detroit.
Ma dovrete fare i conti con una frase come questa, poco utile a chi rappresenta l’industria italiana: “La Fiat ha un privilegio. Può produrre qui o dove vuole. Ci sono strade più corte o più facili fuori dall’Italia”.
In due pagine di intervista Marchionne dedica tre righe alla famiglia Agnelli, per dire che ha finanziato “un’azienda morta”; e a John Elkann, il presidente, per dire che “ha studiato fuori anche lui”. Possibile che non gli abbiano detto John Elkann che si è laureto con lode al Politecnico di Torino?
Però non è incomprensibile che Marchionne spieghi: “I tedeschi non mi hanno venduto la Opel perché sono italiano. È l’arroganza tedesca”. E’ una frase che nega tutto ciò che è stato detto nel corso dell’intervista (e in tante altre dichiarazioni) sulla fabbrica apolide, che sta bene dovunque. E sul lavoro italiano, così tenacemente denigrato.
Marchionne spiega a Ezio Mauro di non aver dormito la notte dopo il referendum.
Evidentemente la notte non porta consiglio. Non sempre.
Fonte: Il Fatto Quotidiano | vai alla pagina » Segnala errori / abusi