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Contro la casta servono giudici eletti dal popolo
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(08 dicembre 2008) - fonte: Il Giornale - Paolo Guzzanti - inserita il 08 dicembre 2008 da 31
Come un morto mal sepolto la questione morale è uno zombi che esce periodicamente sicché le sue imprese vengono poi stiracchiate dalle parti politiche a proprio uso e consumo. La catastrofe morale e moralista della sinistra diessina la dice lunga e la dice lunga perché viene da lontano, viene dallo stesso ventre da cui viene tutta la storia della società italiana in cui nessuno è immune e nessuno rinuncia a segnare opportunisticamente punti di fragili vittorie momentanee.
Partirò da una constatazione impopolare: gli italiani non sono (non siamo) un popolo particolarmente morale. Non abbiamo avuto il calvinismo e neanche la prevalenza del cattolicesimo che piaceva al Manzoni. Il nostro è semmai il paese delle corporazioni o come si dice oggi delle lobby. Erano corporazioni quelle dell’epoca di Dante e sono corporazioni quelle dei tassisti, notai, carrozzieri, piloti, giornalisti, parlamentari, ginecologi, cattedratici, insegnanti, studenti.
Mussolini, che andava per le spicce, aveva cooptato questa sciagura incorporandola nel fascismo e inventando anche la Camera dei fasci e delle corporazioni. I magistrati italiani, e soltanto quelli italiani, costituiscono una corporazione. Ogni corporazione si proclama indipendente e strilla come un’aquila se qualcuno le pesta le penne. Quando i membri di una corporazione parlano dei membri delle altre corporazioni, lo fanno per notare che i loro membri sono prevalentemente dei mascalzoni. Berlinguer trasformò la grande corporazione filosovietica del Partito comunista in una corporazione nazionale moralistica per scaricare la Rivoluzione d’ottobre, ormai spompata come valore, e agganciarsi ad una crociata detta “questione morale”: tuttavia Berlinguer non riuscì a sganciare del tutto il suo partito da Mosca, ma fece del gran male al Paese inventando la differenza genetica, razziale e razzista, fra i comunisti e gli altri, ridotti a untermensch, sottouomini. Tutti fallimenti ridicoli, penosi.
Diciamo le cose come stanno: mezza Italia è mafiosa e camorrista, l’altra metà evade le tasse con forsennato orgoglio, con un Sud che convive benissimo con atteggiamenti culturali, abitudini vocali e gestuali ammiccanti proprie di camorra e mafia, ma che strilla in processioni ridicole fino all’imbarazzo contro camorra e mafia di cui però coopta e promuove i comportamenti. L’Italia è un paese vittimista, un po’ cialtrone, pieno di talenti che vengono depressi e costretti alla fuga da una massa crescente di mediocri che si oppongono alla meritocrazia che è quella dei ricercatori italiani che scappano in America, in Inghilterra, anche in Francia.
E così quando il pus di una vicenda immorale spurga, partono come in un carillon tutti balletti delle compagnie della flagellazione (altrui) e dell’autoassoluzione. Tutto estremamente italiano. Dunque, verrebbe da dire, incurabile. Ed è lì, sulla incurabilità che si prospetta il terreno della sfida. Davvero non c’è null’altro da fare che cercare di tirare la nuova questione morale dalla propria parte riciclandola in propaganda? Davvero non si può cercare di curare il male alla radice? E qui provo ad esprimere alcune idee in libertà, così come mi sono cresciute dentro in questi anni.
La prima è che un certo tasso di corruzione è inevitabile in ogni Paese del mondo. Gli economisti hanno anche studiato questo aspetto e non ricordo a quanto lo hanno fissato, questo tasso, in percentuale: l’8 per cento? Il 3,4? Non ha importanza. Come il tasso di criminalità, di omicidi, furti, incesti e incendi (allitterazione rubata al Cavaliere Inesistente di Calvino), bisogna far pace con il fatto che il male esiste e non sarà mai del tutto evitato.
Ma come fare a ridurlo al minimo? È lì che si apre la vera questione di fondo che implica la responsabilità collettiva, per evitare lo scaricabarile per cui la colpa è sempre degli altri. Bisogna prima di tutto rispondere ad una domanda apparentemente banale: volete voi che esista e vi governi una Suprema Autorità Occhiutissima e Punitiva (Saop) che vi sorvegli, vi scudisci, vi arresti e vi scaraventi in segrete popolate da scolopendre, oppure preferireste che un patto di onesta moralità collettiva e comune reggesse la cosa pubblica?
La seconda scelta è ovvia, ma attenzione: essa comporta il peso sovrumano e italianamente impopolare della responsabilità. Se non vuoi una Saop, devi saper accettare le conseguenze che derivano dall’uso della libertà. Tradotto in soldoni? Significa che la cosa pubblica deve essere amministrata da personale scelto direttamente dal popolo sovrano, il quale però ne diventa l’unico e solo responsabile senza più capri espiatori.
Si tratta, l’avrete capito, di arrivare al costume americano delle primarie. Oggi le primarie sono di moda per via di Obama e della vicinanza di molti con gli Stati Uniti, ma per noi italiani possono essere un boccone molto amaro: in un Paese dalla schiena diritta, la moralità complessiva a livelli alti, le primarie sono l’espressione non soltanto della libertà, ma anche della responsabilità. Che cosa significa? Significa che se la politica viene riconsegnata, o consegnata per la prima volta, ai cittadini, poi non esistono più alibi: non si potrà più dire che la colpa è della corporazione avversaria.
Penso poi che i tempi siano maturi perché i procuratori stessi vengano scelti dal popolo e siano responsabili davanti al popolo, e che si possa fare a meno di procuratori che discendono dall’albero dei concorsi pubblici.
Insomma, se un vero antidoto si vuole cercare contro l’immoralità pubblica, questo non può che essere cercato in un aumento rivoluzionario della possibilità di scelta da parte del popolo e della sua conseguente assunzione di responsabilità. Ma, ecco di nuovo la conseguenza, nessuno potrà poi più dire che la colpa è dell’eredità della Democrazia cristiana, o dei comunisti, o della mafia, o dei meridionali, o dei piemontesi, o comunque degli “altri”.
Il costume morale di una nazione, in mancanza di un passato con castigamatti come Lutero e Calvino (il quale non esitava a Ginevra a mandare al rogo persino i bambini disobbedienti) ha speranza di rigenerarsi soltanto attraverso un nuovo patto collettivo, la versione italiana di un “New Deal”, che sappia andare oltre i partiti, oltre le parti politiche e che possa esprimere trasparenza, onestà, valori condivisi, la fine della dittatura delle lobby e dei gruppi di potere. È come vuotare il mare con un ditale, d’accordo: ma non c’è alternativa. Se non si può reperire la quantità di energia etica necessaria per mettere in moto questa grande turbina della rigenerazione morale allora non resta che arrendersi e sminuzzare come abbiamo sempre fatto in piccoli bocconi avvelenati l’ultimo scandalo, l’ultima malversazione, l’ultima scoperta di tangenti.
Tempo perso, parole scontate, furbizie già viste. Oggi abbiamo una grande occasione: la solidità del governo e della sua maggioranza, avendo blindato il quadro politico, permetta di poter aprire una riflessione onesta, trasparente, profonda, dolorosa e sincera. Infatti, se non ora, quando?
Fonte: Il Giornale - Paolo Guzzanti | vai alla pagina » Segnala errori / abusi