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Le province esistono ancora. Hanno organi politici, apparati amministrativi e gestiscono risorse in settori strategici. Eppure sono totalmente assenti dal dibattito pubblico, come se i numerosi (e spesso disorganici) interventi normativi dell’ultimo decennio avessero portato davvero alla loro eliminazione.

Un’assenza che stride con la lunga campagna di stampa e politica per la loro abolizione. Ma che soprattutto non consente ai cittadini di farsi un’idea chiara su cosa sono e cosa fanno questi enti oggi. Il dibattito pubblico va avanti come se le province non esistessero più.

Perché ci occupiamo di province

Questa consapevolezza ci ha spinto, insieme alla trasmissione Rai Report, ad approfondire meglio la questione delle province in Italia nei suoi vari aspetti. In sintesi, dalle analisi emerge come il loro assetto attuale presenti almeno 3 punti critici: l’elezione indiretta del presidente e del consiglio provinciale, l’incertezza del quadro finanziario in cui operano, la difficoltà di riordinare le funzioni di area vasta nel nuovo sistema. Cioè quelle che riguardano territori troppo ampi per essere gestiti a livello di singolo comune, ma allo stesso tempo troppo piccoli per attribuirne le funzioni direttamente alla regione o allo stato centrale.

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Il primo, che affronteremo nel prossimo capitolo, è connesso all’elezione indiretta dei suoi organi. Chi amministra le province oggi non è più scelto direttamente dai cittadini, ma da e tra i consiglieri comunali e i sindaci. Un sistema pensato per rendere le province la “casa dei comuni”, ma che ha mostrato diverse falle. La principale è il rischio di delegittimazione e di deresponsabilizzazione di chi oggi amministra gli enti di area vasta, frutto della campagna antipolitica che ha preceduto, e poi accompagnato, la trasformazione delle province.

Un approccio, a nostro avviso demagogico, per cui chi è chiamato a responsabilità di tutto rilievo per il suo territorio (i collegamenti stradali, la manutenzione dell’edilizia scolastica) dovrebbe farlo nel tempo che avanza da altri incarichi, senza alcun riconoscimento o indennità e senza soprattutto dover rendere conto in modo diretto ai cittadini, nelle urne, di azioni e scelte intraprese.

Il ridisegno del sistema degli enti locali non va affrontato con un approccio anticasta.

Questa mentalità “anticasta” ha avuto conseguenze di non poco conto. È rimasto in vita un ente con competenze fondamentali senza una guida politica chiara, che sia messa in condizione di fare gli interessi del suo territorio. È venuta meno la legittimazione data dall’elezione diretta. Il presidente non ha più una squadra operativa su cui contare, assessori a tempo pieno cui affidare le diverse materie. Deve lavorare in solitaria, delegando responsabilità fondamentali a consiglieri a mezzo servizio.

Del resto, lui stesso può occuparsene nel tempo che gli avanza dal fare il sindaco del suo comune. Comune che in oltre la metà dei casi ha meno di 10mila abitanti, e non di rado si trova in aree interne. Caratteristiche che rendono difficile in concreto lo svolgimento dell’incarico, e pongono dei dubbi oggettivi sul peso politico dei vertici provinciali e sulla loro capacità di incidere nelle scelte amministrative. Sia rispetto ai dirigenti dell’ente, sia verso le altre autorità sul territorio (es. i prefetti), sia nei confronti della stessa amministrazione statale.

54% dei presidenti di provincia sono sindaci di comuni con meno di 10mila abitanti.

La delegittimazione politica delle province ha facilitato la possibilità di imporre tagli via via crescenti alle loro risorse. Come vedremo nel secondo capitolo, l’introduzione di misure di contenimento della spesa pubblica sempre più onerose ha minato la loro capacità di investire, anche nei settori strategici. Basta osservare il calo del 65% di investimenti nella funzione trasporti tra 2013 e 2015.

Una contrazione che ha portato il legislatore a correggere il tiro negli anni seguenti. Introducendo deroghe al rispetto delle norme contabili e compensando l’impatto dei tagli con contributi straordinari agli investimenti e la rinegoziazione dei mutui. Ma è proprio la necessità di intervenire con misure straordinarie a segnalare l’insostenibilità sul lungo periodo del sistema attuale.

L’incertezza sulle risorse, d’altra parte, è strettamente legata alla complessità del percorso di riforma degli enti intermedi. Nell’ultimo capitolo, ricostruiremo le contraddizioni e i travagli di questo processo, cominciato all’inizio degli anni ’10 nell’esigenza di semplificare, e che ha finito con il produrre un sistema che non appare affatto più semplice di prima.

Il rischio di una complessità ancora maggiore

Negli ultimi decenni, “abolizione delle province” e “semplificazione” sono diventati sinonimi nel dibattito pubblico italiano. Un’associazione diventata quasi naturale, conseguenza anche della proliferazione di questi enti, iniziata nei primi anni ’90.

Negli anni successivi sono tornate a essere 107 (con la fusione di alcune province sarde). Ma è l’intero quadro istituzionale ad essere cambiato. Oggi abbiamo: 76 province delle regioni ordinarie, 14 città metropolitane, 6 liberi consorzi (le ex province della Sicilia non trasformate in città metropolitane), 4 province sarde. Le 4 province del Friuli Venezia Giulia funzionano solo come ripartizione statistica (non c’è più un ente politico autonomo, anche se è aperta una discussione sul ripristino). In Valle d’Aosta e e Trentino Alto Adige (come in passato) le funzioni provinciali sono svolte rispettivamente dalla regione e dalle 2 province autonome di Trento e Bolzano.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Istat
(ultimo aggiornamento: domenica 1 Giugno 2014)

Dopo un decennio di interventi normativi, questa ipotesi è definitivamente tramontata. Sono gli stessi sindaci ad aver ribadito, in un ordine del giorno sottoscritto dalla maggioranza dei primi cittadini lo scorso giugno, che ci sono funzioni di area vasta che i singoli comuni non possono svolgere da soli. A maggior ragione quelli più piccoli e che si trovano nelle aree interne o montane.

Resta quindi aperto un tema: chi si deve occupare delle funzioni di area vasta nel nostro paese? Fin dagli anni ’80, una delle prospettive in campo era puntare sull’associazionismo tra comuni per superare l’ente provincia. La stessa Delrio, in combinato disposto con la riforma costituzionale, lasciava aperta questa ipotesi.

L’associazione tra comuni va bene per le funzioni comunali, ma non per il governo di area vasta.

A nostro avviso, insistere su questa strada - a maggior ragione con le province ancora previste in costituzione - rischia solo di aumentare la confusione istituzionale.

Le funzioni di area vasta, dalla manutenzione delle strade provinciali all’organizzazione dei servizi su scala subregionale, richiedono una continuità amministrativa che non può essere garantita, per fare un esempio, dalle 550 unioni di comuni attualmente presenti sul territorio nazionale.

Le motivazioni sono molte. Primo, perché attribuire le funzioni di area vasta a un simile numero di enti rischia di rendere del tutto ingovernabile il sistema. Un numero peraltro destinato a crescere, visto che oggi meno della metà dei comuni fa parte di un’unione. Secondo, perché la corte costituzionale ha sancito che l’obbligo di associazione per i piccoli comuni (previsto dal 2010 e mai entrato in vigore perché continuamente prorogato) non può essere tassativo. Terzo, perché per loro natura unioni, convenzioni, consorzi possono anche essere accordi temporanei, inadatti a gestire con continuità e a programmare su un orizzonte di lungo periodo.

Di questi temi si sta occupando un tavolo tra governo e rappresentanti degli enti locali. Il nostro lavoro di analisi e monitoraggio è finalizzato anche ad aumentare la consapevolezza su questo dibattito.

L’organizzazione territoriale del paese non deve restare confinata tra gli argomenti da addetti ai lavori. Riguarda i diritti fondamentali delle persone, dalla possibilità di spostarsi con collegamenti sicuri, attraverso una rete di strade provinciali efficienti, alla sicurezza delle scuole. Servizi ancora più importanti per chi vive nei territori più fragili, dove i piccoli comuni non riescono a farsi carico dei servizi di area vasta.

Insieme a Report, abbiamo seguito un metodo di indagine a tecnica mista, che comprende interviste a politici e responsabili del processo amministrativo, raccolta e analisi dei dati, verifiche con esperti del settore.

I contenuti di openpolis sull’ordinamento delle province saranno sinergici con quelli della trasmissione Report. Dati, analisi e indicatori originali sono e saranno usati per la preparazione del programma.

Foto credit: Wikimedia Italia - Licenza

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