Ti trovi in Home  » Politici  » Paolo NEROZZI  » «Una legge sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro»

Chiudi blocco

Altre dichiarazioni nel periodo per gli stessi argomenti



Dichiarazione di Paolo NEROZZI

Alla data della dichiarazione: Senatore (Gruppo: PD) 


 

«Una legge sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro»

  • (19 novembre 2010) - fonte: il manifesto - inserita il 19 novembre 2010 da 31

    La lotta al «collegato» e allo «statuto dei lavori» che cancellano sempre più i diritti.

    Le elezioni devono essere davvero vicine: i parlamentari si affollano a una discussione su «rappresentanza e democrazia nei luoghi di lavoro» organizzato dal Forum Diritti lavoro e dall'Unione esindacale di base(Usb).

    Ma il problema è «semplicemente» la chiave per capire cosa sta accadendo intorno all'architrave della coesione sociale: il diritto del lavoro. Senza una legge che regoli la rappresentatività di ogni sindacato (se non c'è, è «il padrone» a scegliersi l'interlocutore «più disponibile», vedi Marchionne a Pomigliano).

    Il problema immediato sembra secondario: il rinnovo delle Rsu nel pubblico impiego. Brunetta non rispetta nemmeno la scadenza di legge: 30 novembre. Ma a chi conosce le antipatie (padronali, politiche, sindacali) per il semplice fatto che nel pubblico impiego è possibile «certificare la rappresentatività» delle diverse organizzazioni, viene in mente un solo pensiero: «se non si vota ora nel pubblico, probabilmente non lo si farà più dappertutto». Se lo dicono all'unisono Paolo Nerozzi (ex Cgil, ora parlamentare Pd), Paolo Leonardi (Usb) e Piero Bernocchi (Cobas), deve essere davvero preoccupante.

    Il problema è: com'è cambiata la legislazione sul lavoro negli ultimi 20 anni? Allora un segretario della Cgil (Bruno Trentin) si arrabbiava perché veniva bloccata la contrattazione aziendale a favore di quella nazionale (più «addomesticabile»); ora è saltato anche il livello nazionale («nuovo modello contrattuale», con accordo separato).

    Contemporaneamente una legge (40/1996) ha ammesso il ricorso in Cassazione non solo per le «violazioni di legge», ma anche di «contratto o accordo». Sembra «democratico», ma è il contrario; la prima è un atto pubblico, gli altri due privati. Nel frattempo il ricorso al giudice per un dipendente torna ad essere a pagamento («dissuasione»). Poi è arrivato il «collegato lavoro», che riduce a 60 giorni il tempo per fare causa al datore di lavoro (tra due imprese è invece 10 anni, prorogabile).

    Infine lo «statuto dei lavori» appena presentato; «il contratto tra le parti può andare oltre la legge», ossia assumere un valore maggiore pur essendo un atto «tra privati». E a chi ricorri quando non vai d'accordo? All'«arbitro», altro «soggetto privato», pur se «bilaterale» (impresa-sindacato). Non c'è nessuna validazione democratica, nessun voto previsto. E ancora. Per dichiarare uno sciopero (proposta Pd nel trasporto pubblico), si vorrebbe introdurre il «referendum preventivo».

    Inevitabile l'equazione: per eleggere un governo (il «contratto») non serve un voto certificato, per fare una manifestazione occorre «la maggioranza degli italiani».

    È la «de-emancipazione», come nel 1848, quando 5 milioni di francesi poveri persero il diritto di voto.

    E' il «cesarismo» legislativo in atto, un «problema che riguarda tutti e contro cui bisogna sollevare un fronte più largo possibile».

    E' in gioco la democrazia. Niente di più, nulla di meno.

    Fonte: il manifesto | vai alla pagina

    Argomenti: lavoro, democrazia, Cgil, sindacati di base, coesione sociale, Pomigliano, Marchionne, collegato lavoro | aggiungi argomento | rimuovi argomento
    » Segnala errori / abusi
    Pubblica su: share on twitter

 
Esporta Esporta RSS Chiudi blocco

Commenti (0)


Per scrivere il tuo commento devi essere loggato