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Dichiarazione di Vincenzo VISCO


 

Federalismo fiscale. Perché la riforma non è una panacea.

  • (09 settembre 2008) - fonte: Il Sole 24 Ore - Vincenzo Visco - inserita il 09 settembre 2008 da 31

    Nelle settimane passate il federalismo fiscale è stato uno dei principali argomenti di discussione, ed è stato oggetto di una propaganda insistita e martellante che tuttavia ha contribuito ad aumentare la confusione sull’argomento. Può quindi essere utile cercare di chiarire alcuni aspetti.
    Il federalismo fiscale (o più precisamente l’attribuzione di un certo grado di autonomia finanziaria e/o tributaria a Regioni ed Enti locali) non è una riforma epocale, ma più semplicemente anche alla luce del nuovo titolo V della Costituzione - la conclusione di un processo di decentramento fiscale e finanziario già avviato fin dagli anni’9o del secolo scorso. Nel 1990 infatti, il grado di decentramento esistente era trascurabile. Solo il 15% delle risorse disponibili degli enti decentrati derivava da tributi propri, oggi questa percentuale è superiore al 44%, non dissimile da quella riscontrabile in molti stati federali. Per l’intero periodo (1990-2007), invece, la spesa di Regioni, Province e Comuni è rimasta costante al 30-32% della spesa pubblica complessiva. Per ciascun livello di governo già esistono imposte autonome, devoluzione di gettiti erariali, compartecipazione ai proventi di imposte erariali, possibilità di applicare autonomamente addizionali a imposte erariali: in sostanza tutti gli strumenti possibili per esercitare una piena autonomia. Questi strumenti vanno quindi razionalizzati e coordinati, ma a meno che non si voglia smantellare l’esistente, non c’è molto da inventare. In sostanza, la riforma vera (relativa ai poteri) è stata fatta con l’approvazione del titolo V della Costituzione: il resto sono procedure di attuazione di per sé compatibili sia con uno Stato unitario che con uno federale.

    L’intera costruzione logica su cui si basa da oltre dieci anni il dibattito italiano è di dubbia coerenza e può essere discussa, anzi contestata. Il ragionamento tradizionale (da tutti condiviso più o meno consapevolmente) è il seguente: poiché la spesa pubblica pro-capite è approssimativamente eguale in tutto il territorio nazionale (affermazione in verità inesatta) mentre il gettito fiscale è molto differenziato, alcune Regioni - quelle del Nord - finanziano indebitamente le spese e i consumi di quelle del Sud per cui sarebbe necessario un riequilibrio (si parla in proposito di «residuo fiscale»). Tuttavia, come ha sottolineato Giuseppe Pisauro, in materia economica i costi e i benefici sono percepiti dagli individui e non dai territori, e agli individui vanno riferiti. E a livello di singoli individui il fatto che ciascuno ottenga dallo Stato lo stesso ammontare di risorse pubbliche e paghi in base alla propria capacità contributiva è del tutto coerente in via di principio. I "ricchi" del Sud infatti pagano le stesse imposte e ottengono gli stessi benefici di quelli del Nord, e lo stesso trattamento è assicurato ai "poveri" del Sud come quelli del Nord. Il fatto che a Milano esistano più ricchi che a Napoli è del tutto irrilevante sul piano logico, dal momento che ai singoli milanesi e napoletani è assicurato lo stesso identico trattamento. Del resto, se si adotta una logica territoriale è difficile dire dove ci si debba fermare: nei quartieri "bene" di Milano e Roma i redditi medi sono più elevati di quelli periferici, così come le tasse pagate. Si dovrebbe concludere che i residenti dei Parioli dovrebbero ricevere più servizi (o pagare meno tasse) di quelli di Centocelle, e così via. In sostanza l’approccio territoriale al decentramento fiscale si basa su una logica implicitamente, ma coerentemente separatista o secessionista.

    Nel dibattito politico corrente il federalismo è presentato come un sorta di panacea per tutti i mali: sarà in grado di risolvere il problema dei tagli agli enti locali aumentando le risorse disponibili, di ridurre la pressione fiscale, di garantire gli equilibri del bilancio pubblico nazionale, di ridurre la spesa pubblica, di combattere l’evasione fiscale.
    È bene non farsi illusioni in proposito: la spesa pubblica italiana non è superiore (se non di poco) alla media europea, mentre la spesa corrente primaria e la spesa sociale sono inferiori di alcuni punti. Gli interessi sul debito pubblico e le pensioni rappresentano quasi 20 punti di Pil (oltre 4 punti in più della media europea), il disavanzo è di 2,5 punti e va azzerato, le spese per il funzionamento dello Stato, tenendo conto anche degli impegni internazionali, non sono particolarmente comprimibili. Il sostanza il federalismo non garantirà maggiori risorse a nessuno, mentre sono certe minori disponibilità per tutti almeno per i prossimi lustri. L’unica possibilità di assicurare maggiori risorse al Nord (che è poi quanto è stato promesso ai cittadini di quelle Regioni) è sottrarle al Sud, o porle a carico del bilancio pubblico, o rivedere il trattamento riservato alle Regioni a Statuto speciale, o ridurre in maniera consistente i Lea. La fine degli sprechi e dell’assistenzialismo è un obiettivo fondamentale, ma a parte l’adozione del principio dei costi standard, non ha molto a che vedere con il dibattito in corso.

    Nel periodo 2001-2005 la spesa pubblica primaria è aumentata di 2,5 punti. L’aumento è interamente attribuibile alle spese locali e regionali. Ciò significa che nel nostro Paese l’approccio concreto al federalismo può essere devastante. Peraltro questo è un problema comune agli Stati federali privi di governi centrali forti, autorevoli e responsabili. Vito Tanzi ha più volte richiamato l’esperienza degli Stati Sudamericani (Argentina in testa) le cui crisi finanziarie sono sempre risultate strettamente collegate al loro assetto federale: l’esatto contrario di quanto sostenuto da alcuni nel dibattito attuale.
    Poco si è parlato nelle ultime settimane di federalismo differenziato, e cioè della possibilità di attribuire alle Regioni meglio organizzate nuove funzioni e ulteriori risorse. Il problema è sostanzialmente politico e non tecnico. Già oggi le Regioni più ricche faticano a esercitare i poteri che hanno, mentre al Sud può risultare necessario l’esercizio di poteri sostitutivi da parte dello Stato come dimostrano anche le recenti esperienze napoletane. La gestione di questa asimmetria non sembra agevole, ma forse può rappresentare un indirizzo utile per individuare una soluzione.
    In conclusione, il federalismo fiscale può essere utile per completare il riassetto delle funzioni e dei poteri ai diversi livelli di governo, ma non a risolvere quelli economici che restano dove sono. Al contrario, ogni trasferimento di funzioni comporta inevitabilmente una duplicazione, ancorché parziale, di compiti e quindi di costi. In sostanza non sarà possibile distaccarsi troppo dallo schema presentato dal governo Prodi, frutto di un anno di discussioni con Regioni ed Enti locali, condiviso dalle Regioni e contestato dai Comuni e dalle Province perché ritenuto troppo regionalista.

    Fonte: Il Sole 24 Ore - Vincenzo Visco | vai alla pagina
    Argomenti: enti locali, ricchi e poveri, spesa pubblica, federalismo fiscale, finanza, redditi, economia nazionale, riforma, Regioni, Pil, titolo V | aggiungi argomento | rimuovi argomento
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