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Dietro il voto irlandese le inquietudini d’Europa.
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(19 giugno 2008) - fonte: Il Sole 24 Ore - Piero Fassino - inserita il 19 giugno 2008 da 31
E’stato giustamente sottolineato che c’è qualcosa di paradossale nel fatto che il Trattato di Lisbona sia stato bocciato dai cittadini di quell’Irlanda che è tra le nazioni che più hanno beneficiato dell’apporto, dei contributi finanziari, delle politiche di coesione messe in campo dall’Unione europea.
E tuttavia non è paradosso sorprendente. Gli elettori irlandesi hanno replicato quel che accadde due anni fa nei referendum olandese e francese, che forse troppo in fretta furono archiviati come un incidente di percorso.
In realtà già quei referendum ci parlavano di un radicale rovesciamento nell’orientamento di una parte dell’opinione pubblica verso il processo di integrazione europea.
Per quasi cinquant’anni, infatti, stare in Europa è stato percepito dalla stragrande maggioranza dei cittadini europei come un vantaggio.
Tant’è che nel corso di mezzo secolo la Ue ha esercitato una forte attrazione ed è passata dai 6 Stati iniziali a 9 e poi a 12, a 15 e dopo la caduta del muro di Berlino a 25 e infine a 27. E sono in lista di attesa almeno altri sette Paesi: la Croazia, prossima all’ingresso e, a più lungo termine, Serbia, Montenegro, Macedonia, Bosnia, Albania, Kosovo.
Che cosa è successo, dunque, per motivare quel mutamento di orientamento che ha condotto chi ieri considerava l’Europa un vantaggio, a considerarla oggi un rischio?
Si può dire che l’Unione europea paga la paura della globalizzazione sull’uscio di casa.
Sì, perché dietro il voto irlandese - e quelli francese e olandese - ci sono le tante inquietudini che corrono sotto la pelle delle società europee. L’inquietudine di chi attribuisce all’euro l’erosione del proprio reddito; l’ansia di chi vede il proprio lavoro reso più precario da delocalizzazione e competizione dei Paesi emergenti; il fastidio per normative europee vissute come vincolo e costrizione; la paura suscitata da correnti migratorie che stanno cambiando la demografia dell’Europa e suscitano allarme per la propria sicurezza.
Paure di fronte alle quali l’Europa appare a molti cittadini incapace di offrire tutele.
È solo una percezione di opinioni pubbliche impaurite oppure c’è qualcosa di vero?
Io credo che l’esito di quei referendum ci obblighi a fare i conti con l’esaurirsi di una certa idea del processo di integrazione europea.
Mi riferisco alla convinzione che con l’integrazione le nazioni avrebbero potuto mantenere inalterati i loro assetti economici e sociali.
Un’idea ben rappresentata dalla formula della "difesa del modello sociale europeo”.
Per almeno tre decenni, quella formula è stata felice. Ma l’accelerarsi dei processi di globalizzazione ha messo in difficoltà l’Europa a difendere come immutabili i propri assetti economici, occupazionali e sociali.
Per dirla in modo più netto: in un mondo in cui, quasi il 40% dell’umanità - ovvero i cittadini di Cina, India, Russia, Brasile, Egitto - irrompe nell’economia globale, credere che gli assetti del mondo possano rimanere inalterati è un’astrazione illusoria.
Ancor più illusorio è credere che l’Europa possa organizzare la propria economia e il proprio welfare indipendentemente da ciò che accade nel mondo.
È, dunque, tempo di dirci senza reticenze che con mercati aperti, interdipendenza crescente, comunicazione in tempo reale,libera e facile circolazione di persone ‘e merci, limitarsi a difendere l’acquisito rischia di essere velleitario e perdente.
Governi, partiti, sindacati sono chiamati a prenderne atto e a trarne le conseguenze. Prima lo faranno, meglio sarà.
Stare nel mondo della globalizzazione significa, infatti, misurarsi con tutte le sfide conseguenti e fare la fatica di ripensare qualità e caratteri dello sviluppo, forme del mercato del lavoro, tipo di stato sociale, forme della democrazia collocandole sempre di più in un mondo che è unico e nel quale territori protetti non esistono più.
È una fatica che richiede un rapporto democratico con i cittadini. E qui ci imbattiamo nell’altro grande nervo scoperto dell’Europa: un deficit di consenso e di legittimazione democratica che ha via via ridotto la credibilità della Ue agli occhi di una crescente quantità di cittadini europei.
Gli elettori francesi e olandesi rifiutarono la Costituzione senza conoscerne il testo, così come la gran parte degli elettori irlandesi probabilmente non ha letto il Trattato di Lisbona.
Ma questo non riduce il significato di quei no. Anzi, mette in evidenza che è proprio la sensazione di essere meno padroni della propria vita e del proprio destino a sollecitare un istinto di difesa, spingendo in alto il rifiuto dell’Europa.
Sappiamo bene che non è ripiegando nella dimensione nazionale che si governano i problemi.
E tuttavia non basta che una cosa sia giusta, se non è riconosciuta tale dai suoi destinatari. È forse questo il limite del Trattato di Lisbona.
Non già nei suoi contenuti, ma in un processo di elaborazione che, nello sforzo di superare la crisi prodotta dai referendum olandese e francese, non è riuscito a ridurre la distanza tra istituzioni europee e cittadini.
È bene averlo presente adesso. Guai se la giusta sollecitazione a proseguire in ogni caso le ratifiche, si traducesse in un’alzata di spalle verso l’inquietudine e gli umori che l’Irlanda ha messo a nudo.
L’Unione riuscirà a superare la crisi indotta dal referendum irlandese solo se individuerà forme istituzionali, politiche, partecipative che avvicinino la Ue ai cittadini, consentendo loro non già di subire l’Europa; ma di viverla da protagonisti.
Fonte: Il Sole 24 Ore - Piero Fassino | vai alla pagina » Segnala errori / abusi