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Dichiarazione di Antonio POLITO


 

Perché lascio la direzione del Riformista

  • (31 dicembre 2010) - fonte: Il Riformista - inserita il 31 dicembre 2010 da 31

    Lascio da oggi la direzione del Riformista, il giornale che ho fondato insieme con Claudio Velardi nel 2002. Lascio per favorire, e possibilmente per accelerare, un cambiamento nella compagine editoriale che è ormai divenuto indispensabile per garantire un futuro alla testata.
    Negli ultimi due anni, infatti, la presidenza del Consiglio ha sospeso al nostro giornale il versamento dei contributi previsti dalla legge, che avrebbero dovuto coprire più della metà delle nostre spese. La contestazione, sfociata poi anche in un’indagine dell’autorità per le comunicazioni, riguarda la proprietà della testata, che appartiene alla famiglia Angelucci, e il fatto che essa possiede anche la testata di Libero, giornale parimenti percettore di contributi.
    Gli avvocati della cooperativa che edita il Riformista hanno molto bene argomentato in una memoria difensiva che l’editore è soggetto completamente diverso dal proprietario della testata, e che il Riformista è giornale completamente diverso da Libero, e che dunque non si vede perché ci vengano negati gli stessi contributi che in questi due anni hanno percepito quotidiani analoghi al nostro come Il Foglio, l’Unità, il Manifesto.

    Siamo in attesa della sentenza di appello dell’Agcom, che dovrebbe arrivare entro la metà di febbraio. Qualsiasi essa sarà, il danno è però già stato arrecato. Senza contributi, bisogna fare debiti. Più forti sono i debiti, meno libera da condizionamenti è l’autonomia di un giornale. Più aumentano i rischi per l’indipendenza della testata e più il direttore deve difenderla anche a costo del suo posto di lavoro. I giornali come il Riformista non possono fare a meno dei contributi pubblici.

    Per questo la soluzione migliore per il futuro del giornale è oggi un cambiamento nell’assetto editoriale che lo metta al riparo dalla contestazione mossagli, per quanto infondata speriamo venga riconosciuta. Ci sono trattative in corso affinché la proprietà venga direttamente assunta dal soggetto politico titolare del contributo, e cioè il movimento delle Ragioni del Socialismo di Emanuele Macaluso. Sarebbe un modo davvero indiscutibile per ripristinare il diritto ai contributi, la cui sospensione ci ha strozzati.
    Mi è stato chiesto di fare spazio a questo disegno, e io ho accettato.

    Naturalmente, ci sarebbe stato un altro modo per rendersi più indipendenti dalle erogazioni di Palazzo Chigi, dalla volontà dell’editore o dal rubinetto delle banche, e questo modo era trarre più risorse dai ricavi di vendite e pubblicità. Ci abbiamo provato, a perseguire questa strada di mercato, negli ultimi due anni. A questo era finalizzato il progetto di espansione del nostro giornale, che puntava a fargli superare la soglia critica delle dimensioni che avrebbero potuto aprirgli la strada di nuovi introiti. Bisogna riconoscere che questo nostro tentativo non ha avuto sucecso.

    Come sempre in un’azienda, la prima responsabilità è di colui che ha concepito con l’editore il progetto e poi l’ha realizzato: il direttore. A quella responsabilità vanno aggiunte le avverse condizioni di mercato: siamo partiti alla vigilia della più profonda crisi di vendita dei giornali italiani dal dopoguerra ad oggi, da molti interpretata addirittura come l’ultimo giro di walzer per la carta stampata, e che ha prodotto stati di crisi e tagli di personale nei più grandi e robusti giornali italiani. D’altro canto questa crisi ha colpito in primo luogo il giornalismo come noi lo intendiamo, e cioè quello meno parziale e propagandistico, quello più riflessivo e autocritico, fatto per scuotere ogni mattina le convinzioni del lettore, piuttosto che per confermarlo nei suoi pregiudizi. Rispetto a quando nascemmo, nel 2002, anche questo è cambiato: i modelli di maggior successo popolare sono oggi agli antipodi di tutto ciò che riteniamo sano, utile e corretto nel giornalismo. Francamente, neanche l’insuccesso poteva spingerci a imitare quei modelli.

    Ma c’è una lezione più profonda che io traggo dalla nostra vicenda di questi anni, e penso che vi dovrà riflettere chi farà questo giornale in futuro. Ciò che è infatti successo negli ultimi anni è la scomparsa di quella terra di mezzo della politica, della cultura, del dibattito pubblico nazionale, in cui soltanto possono maturare le idee e le convergenze per le riforme necessarie a cambiare questo nostro paese vecchio, stanco e malato. E questo, per un giornale che si chiama Riformista, è un problema molto, molto serio.

    È perfino ovvio individuare, come fanno molti, la causa di questa morte virtuale del riformismo nella incapacità della sinistra di rinnovarsi e di trovare un leader all’altezza del compito. Questo giornale nacque anche per impedire che i massimalisti alla Cofferati si impadronissero della sinistra italiana, e ci riuscimmo. Ma non riuscimmo ad affermare una leadership autenticamente riformista. Tutto ciò è vero, ma è anche una spiegazione troppo facile. Se quella leadership non è mai nata, o appena nata si è sempre incartata, ci deve essere un motivo ambientale che tiene costantemente il riformismo italiano sotto il ricatto vincente del giustizialismo e del radicalismo.

    Questa causa ambientale è Berlusconi. Ciò cui abbiamo assistito in questi due anni, e a cui attribuisco la responsabilità principale della scomparsa di quella terra di mezzo nella quale i riformismi dovrebbero parlarsi, è stato il tramonto definitivo di ogni speranza che la sfida al cambiamento venisse dal centrodestra italiano e dalla sua rivoluzione liberale. Il nostro schema, lo schema del Riformista, è stato fin dall’inizio il seguente: la destra rivolterà la vecchia Italia come un calzino, con le sue riforme liberali, e sarà un’operazione dolorosa.
    La sinistra si troverà dunque a governare un giorno un’Italia più moderna, alla cui modernità dovrà adeguarsi per non perderne i benefici, se vorrà renderla più equa socialmente.

    Tante cose sono cambiate nel mondo in questo decennio, e molti schemi interpretativi anche nostri non sono più validi. Però niente di tutto ciò che è cambiato giustifica il fallimento liberale e riformista dal centrodestra. E senza quello stimolo, diventa francamente impossibile fare la lezione al centrosinistra. Le mancate riforme di Berlusconi sono il più formidabile alibi fornito alla sinistra per abbandonare a sua volta la via delle riforme. Quando una parola diventa vana, nessuno crede più al suo significato. A questa demolizione semantica la congiuntura politica italiana ha sottoposto un giornale che si chiama il Riformista. Prima abbiamo riportato quell’aggettivo nel lessico della politica italiana. E poi, quando tutti se ne fregiavano tronfi, lo abbiamo visto fare a pezzi nella pratica di una politica che di riforme non parla nemmeno più.

    Per questo, quando in questi anni ho ricevuto suggerimenti più o meno autorevoli ad essere più comprensivo con Berlusconi, a non occuparci di Noemi e di Patrizia e di Ruby ma di politica, ho sempre finito per rispondere a miei suggeritori: scusa, ma quale politica? L’altro giorno Franco Bechis ha fatto su Libero un impietoso calcolo numerico del nulla prodotto dal governo negli ultimi due anni. E ieri Galli della Loggia sul Corriere ha descritto con mirabile precisione l’incantesimo nel quale berlusconismo e antiberlusconismo, le uniche due tribù rimaste sul campo di battaglia, hanno precipitato la politica italiana e, di conseguenza, l’Italia.

    In questi anni mi è risultato sempre più evidente che Berlusconi non era il prezzo, più o meno alto a seconda dei gusti, da pagare alla soluzione del problema italiano; ma era egli stesso il problema italiano, che paradossalmente infettava i suoi oppositori dei suoi stessi difetti, costruendo così la sua strategia darwiniana di resistenza e di sopravvivenza del più adatto. Perché nell’Italia di oggi, nell’Italia che lui ha contribuito più di chiunque altro a modellare, lui è ancora il più adatto a vincere. Ed è questo che oggi mi divide anche da tanti amici che condivisero con me l’avventura del primo Riformista: ho smesso di sperare in Berlusconi per dare una scrollata alla sinistra italiana.

    Ci sarà dunque da ripensare molte cose per chi verrà dopo. E però prima o poi il tappo salterà, e la politica ricomincerà, e si schiuderà un po’ alla volta quella terra di mezzo in cui il Riformista sa pascolare così bene. Ci vorranno persone capaci, irriverenti e indipendenti come nella tradizione di questo giornale, per cogliere quella nuova opportunità. Colleghi come Stefano Cappellini, che assumerà dal 1° gennaio la direzione del giornale, che fu tra i giovanissimi fondatori, al quale vanno la mia fiducia e il mio augurio; e poi, dopo di lui, al direttore che una nuova proprietà sceglierà.

    Ringrazio tutti coloro che, in redazione e nell’azienda, mi hanno aiutato e sostenuto in questi anni con il loro lavoro, il loro impegno, la loro creatività. Rimangono tutti e si faranno valere. E soprattutto ringrazio i nostri lettori, una piccola ma appassionata e influente comunità che ci ha seguito fin dal primo giorno, e che non molla certo adesso: vero capitale sociale di questa azienda, e mia personale stella polare in tutti questi convulsi e fantastici anni che ho vissuto al Riformista.

    Antonio Polito

    Fonte: Il Riformista | vai alla pagina

    Argomenti: Berlusconi, agcom, giornali, giornalisti, giornalismo, politica italiana, editori | aggiungi argomento | rimuovi argomento
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