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Dichiarazione di Antonio POLITO


 

Speriamo che sia Obama

  • (04 novembre 2008) - fonte: Il Riformista - Antonio Polito - inserita il 04 novembre 2008 da 31

    Ha scritto ieri El Pais: «Obama fa appello al voto riformista». Eccoci qua. Presenti.Il Riformista tifa per Obama. Non da oggi, a dire il vero. Da quando sembrava un nano, per giunta nero, di fronte al gigante Hillary. Speriamo che sia Obama. Domani mattina. Speriamo che sia Obama. Che cosa c’è di riformista in Obama? Me lo chiedono tanti lettori e amici (Alberto Mingardi a pagina 8, per esempio). Essi dicono: a parte il fatto che è bello, giovane, moderatamente nero, figo senza essere fighetta, a parte il fatto che si muove come uno street dancer e parla come un rapper, che interpreta alla perfezione lo spirito del tempo e vola spinto dal vento del secolo, che altro ci vedi in Obama?
    Questi ragionamenti mi ricordano un vecchio film dei Monty Python, «Brian di Nazareth», in cui un leader rivoluzionario della Palestina ai tempi di Cristo incitava il suo popolo alla ribellione contro l’oppressore romano: «Perché a parte la moneta, gli acquedotti, i tribunali, le strade, la medicina, il commercio, il circo ecc. ecc., che altro hanno fatto i Romani per noi?». Voglio dire: tutti i doni che il Cielo ha dato a Obama, e che anche i critici gli riconoscono, potrebbero già bastare, no?
    Ma accetto la sfida e spiego che cos’ha di tanto riformista Obama, per me. Io tifo Obama per la ragione opposta a quella che spesso viene agitata dalla vulgata di sinistra. Quella dice: Obama può salvare l’America da se stessa. Gestire il suo inevitabile declino economico e politico, emendarsi dagli otto anni sciagurati di Bush, rinunciando all’ambizione imperiale di mettere il naso nelle vicende del mondo. C’è chi tifa Obama perché spera che lui possa ridimensionare l’America. Noi invece tifiamo Obama per salvare il mondo dall’assenza dell’America, dalla illusione che se ne possa fare a meno, che la si possa mettere in castigo per gli otto anni di Bush, e che ne si possa sostituire la leadership con un fantomatico congresso multipolare delle nuove grandi potenze, la Cina e la Russia, l’Europa e il Brasile, sai che spettacolo.

    Il riformista parte da un assunto: la leadership del mondo libero resterà ancora a lungo, ancora in questo secolo, nelle mani degli Stati Uniti d’America. La retorica del declino e del crollo americano l’abbiamo già vista troppe volte in azione per crederci davvero. L’articolo di Robert Kagan pubblicato dal New York Times confuta in maniera inesorabile questa illusione. Ma se l’America deve essere ancora alla guida del mondo libero, allora è necessario che abbia fiducia in se stessa, che si senta «born again», che sia animata dall’eccitazione e dalla allegria di un nuovo inizio, che non cada nella depressione da isolazionismo, solo perché le opinioni pubbliche del mondo dicono nei sondaggi di non amarla più come un tempo.
    Barack Obama assicura tutto questo. Apre un’epoca. E non tanto perché è nero, e dunque ascendendo alla Casa Bianca metterebbe fine alla questione razziale. Così non è. Obama non discende dagli schiavi delle piantagioni, deportati dall’Africa. Non è un nipote dell’Ottocento, ma un figlio del Duemila. Figlio della globalizzazione, di un padre kenyota andato negli Usa per studiare, non per raccogliere il cotone; figlio di una madre del Kansas, nipote di una nonna nera in Africa e di una nonna bianca alle Hawaii. Più che chiudere l’era della questione razziale, apre l’era della questione multirazziale. Nessuno più di lui può dunque incarnare, innanzitutto nella sua persona prima ancora che nella sua politica, questa proiezione dell’America nel mondo nuovo che essa stessa ha costruito, con la sua industria, la sua finanzia, la sua cultura e la sua politica: il mondo dei commerci aperti e della libertà economica, che ha cambiato la faccia del pianeta nell’ultimo quarto di secolo, e per il meglio, sollevando miliardi di uomini dalla povertà e dall’arretratezza, e che non deve essere buttato nel cestino della storia solo perché si è esagerato coi derivati e la finanza ha fatto crac.
    Questo, per un riformista, è Obama. E il programma, scusate, conta poco: chi se ne frega del programma quando il candidato è tutto un programma? E non c’entra niente che McCain sia ben più che un decent man, è uno splendido candidato, capace e serio, patriota e onesto, un uomo che ha tutti i numeri per vincere le elezioni e chissà, magari le vincerà pure, distruggendo ancora una volta la credibilità dei sondaggi e dell’establishment che parla parla - compreso noi - e non sa quello che il popolo davvero pensa.
    Se così sarà, non ci sarà nulla da temere: gli Stati Uniti, per fortuna, non sono un paese dove si cambia regime quando si cambia presidente.
    Ma se vincerà Obama, la ventata americana nel mondo sarà formidabile. Ci sarà più America, non meno America. Costringerà noi europei a più impegno, non a meno fatica. Ci chiamerà a nuove Bretton Woods e a nuove responsabilità, anche militari, magari a partire dal Congo, per salvare un milione e mezzo di profughi dalla fame e dalla morte. E questo che vogliamo. E così che deve andare. Il mondo sarà più sicuro e più prospero se l’America ne sarà alla guida, e se sarà così autorevole e affascinante da tirarsi dietro il resto del mondo libero.

    Per questo, «the answer, my friend, is blowing in the wind», come cantava Bob Dylan. La risposta è Obama. Speriamo che sia Obama.

    Fonte: Il Riformista - Antonio Polito | vai alla pagina

    Argomenti: usa, election day, Obama, riformisti, economia globale | aggiungi argomento | rimuovi argomento
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Commenti (1)

  • Inserito il 04 novembre 2008 da 31
    «...tifiamo Obama per salvare il mondo dall’assenza dell’America, dalla illusione che se ne possa fare a meno, che la si possa mettere in castigo per gli otto anni di Bush...». Speriamo che il vento soffi amico. Speriamo che sia Obama.

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