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Dichiarazione di Fiamma NIRENSTEIN

Alla data della dichiarazione: Deputato (Gruppo: FI) 


 

Obama, l’ottimismo non sempre paga

  • (27 novembre 2008) - fonte: Panorama - Fiamma Nirenstein - inserita il 22 novembre 2008 da 31

    Dall’Iraq a Israele, dall’Iran alla Siria, al Libano, ecco dove e perché la politica della diplomazia del prossimo presidente Usa rischia di naufragare.

    Le prime avvisaglie del fatto che l’ottimismo di Barack Obama potrebbe trovarsi in gravi difficoltà se esercitato in Medio Oriente sono già là, nella rottura della tregua fra Hamas e Israele, iniziata a luglio e ormai agonizzante a causa dei missili kassam e grad lanciati dai palestinesi su Ashkelon e Sderot. Obama, sia pure con molte oscillazioni, durante la campagna elettorale ha dichiarato che intende affrontare con la diplomazia i problemi mediorientali, dall’Iraq alla questione afghana, dall’Iran alla Siria, con i loro corollari Hezbollah e Hamas. In concerto con Tony Blair ha resuscitato l’idea clintoniana del ritorno di Israele entro i confini del 1967 e della divisione di Gerusalemme (la cui parte est diventerebbe capitale del futuro stato palestinese: una spaccatura che è sempre stata bocciata senza appello da ogni leadership palestinese), ripresa poi anche dal primo ministro dello stato ebraico Ehud Olmert.

    Un piano che ritorna regolarmente: proposto dai sauditi nel 2002, venne rispolverato dalla Lega araba lo scorso anno. Secondo il Times di Londra Obama ne avrebbe discusso sei mesi fa a Ramallah con il leader dell’Anp, Abu Mazen, al quale avrebbe detto, senza mezzi termini: «Se gli israeliani non accettano sono pazzi». E invece quest’idea rappresenta un drammatico passo indietro rispetto al concetto di «confini sicuri a fronte di due stati per due popoli» che l’America, con l’amministrazione Bush, aveva compreso e accettato. Tornare alle frontiere del 1967 significherebbe infatti una sicura escalation delle incursioni e dei lanci di missili su Israele; rinunciare ai confini sicuri non è un passo avanti verso la pace, ma, al contrario, è una garanzia di conflitto.

    Obama forse non sa ancora che il Medio Oriente cammina sempre su un filo e che gli Usa, se non riusciranno a bloccarne le focosità, si troveranno a decidere che fare di fronte a inevitabili guerre. Se tornerà in Iraq Muqtada al- Sadr con i suoi gruppi sciiti, se altre milizie chiederanno la loro fetta di potere, se i curdi e gli arabi seguiteranno a scontrarsi a Mosul, Kirkuk e Dyala, i programmi di ritiro diventeranno quasi impossibili. Se Israele, vedendo troppo vicino (è previsto nel 2009) il completamento della bomba iraniana, decidesse di agire come fece contro il reattore siriano nel settembre 2007; se gli hezbollah decidessero di sparare con la benedizione iraniana; se il Libano si asservisse a quella politica inimicandosi Israele (che non potrebbe che reagire), gli Stati Uniti sarebbero in difficoltà a mantenere il programma diplomatico. Adesso a Gaza succede proprio quello che Obama non voleva: nei mesi scorsi due suoi inviati, ha rivelato ad Al-Hayat (giornale arabo di Londra) il portavoce di Hamas Ahmad Youssef, avevano incontrato segretamente i leader terroristi a Gaza. Hamas lo nega, il Times di Londra lo conferma. Già si scontra con la realtà l’ispirazione di Zbigniew Brzezinski e Robert Malley (che fu special assistant per le questioni arabo-israeliane del presidente Bill Clinton), famoso per aver creato la versione palestinese di Camp David, quella che incolpava gli israeliani del fallimento del vertice Arafat-Barak. Ambedue sono nel team di politica estera del presidente eletto. Ma ecco che piovono di nuovo i kassam, dai tunnel si importano armi, fra Hamas e Al Fatah le cose sono tali da rendere difficilissime le speranze di calma fra le fazioni. Il Medio Oriente è un ciclone più forte del vento lieve del pacifismo occidentale.

    Fonte: Panorama - Fiamma Nirenstein | vai alla pagina
    Argomenti: usa, politica estera, medio oriente, israele, Obama | aggiungi argomento | rimuovi argomento
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