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Parola di presidente: «Tutti meritano la felicità»
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(21 gennaio 2009) - fonte: l'Unità - Furio Colombo - inserita il 21 gennaio 2009 da 31
Durante la cerimonia nessun predecessore era mai stato senza un sorriso, senza un’ombra di mondanità.Ma Obama non ride e non sorride. Forse avverte che sta segnando la storia
Ecco che cosa è accaduto in queste ore in America: un immenso pellegrinaggio civile. Milioni di cittadini sono arrivati a Washington, come fosse un santuario secolare o una meta salvifica, per essere presenti al giuramento e al discorso di Barack Obama, primo presidente nero degli Stati Uniti. L’inaugurazione di un presidente è sempre stato un evento importante e celebrato negli Stati Uniti, forse l’unico Paese democratico in cui le istituzioni hanno conservato il prestigio alto e sacro delle origini persino quando quelle istituzioni sono rappresentate da persone modeste o inadatte. Ma per avere un’idea del giorno 20 gennaio, inaugurazione di Obama presidente, nella città di Washington, occorre ricordare che alla festa di George W. Bush, quattro anni fa, erano convenute a Washington 400mila persone. E che fino ad oggi, il più grande momento collettivo della storia contemporanea americana era stato l’inaugurazione di John Kennedy, quando quasi un milione di americani lo avevano festeggiato a Washington. Questa volta è diverso, è nuovo, sta segnando la storia l’ingresso di un nuovo presidente alla Casa Bianca e al vertice del Paese che pesa di più nel mondo. Gli americani non hanno pensato neppure per un istante di far finta che i presidenti sono tanti, che la politica è sempre lo stesso gioco e che clamorose delusioni sono sempre possibili.Barack Obama, entra invocato dalla folla (un fatto estraneo alle normali cerimonie democratiche), attraversa lo spazio lasciato per lui. Non ride, non sorride. Il volto è attento e pensoso.
Per quanto cerchi di ricordarmi delle tante inaugurazioni che ho visto, nessuno mai è stato senza un’ombra di mondanità compiaciuta nel giorno dell’inaugurazione. Lui e l’immensa folla ascoltano il reverendo Warren, il tanto discusso pastore della chiesa di Obama, mentre dice «Ringrazio Dio di vivere in un Paese dove il figlio di un immigrato nero arriva a questo giorno. E mi vergogno - Dio - per un Paese che può rovinare fino a questo punto la sua economia e il lavoro di tanti. Amen».
E quando canta, con la sua celebre voce, Aretha Franklyn, quando canta un’indimenticabile «God Bless America», mentre il cielo è pieno di bandiere e in basso si estende all’infinito il mare di folla, Obama non ride e non sorride. Le bambine gli stanno vicino serie, senza toccarlo, la moglie un po’ indietro. Ecco la Bibbia di Lincoln, mai vista o toccata dai tempi di Lincoln, offerta al giuramento del vice presidente Biden. Torna, di profilo, il volto di Obama, il segno intorno alla bocca un po’ più teso e duro. Suonano Isaac Pearl e Yo-Yo. Ma mentre trascorre il minuto esatto prescritto dalla Costituzione. Obama è presidente poco dopo mezzogiorno, prima di giurare.
Quando giura, il suo nome è Barack Hussein Obama. Quando parla, sempre senza sorridere, forse perché sente l’immenso peso dell’evento, questo dice: «Mi sento umile, grato, consapevole, ansioso. Noi siamo qui perché la Costituzione ci ha portato qui. Siamo in guerra. Quale guerra? la guerra contro l’odio. Siamo in crisi. Quale crisi? quella della povertà che non finisce e all’improvviso si allarga. È grave la situazione, più di quel che vi dicono. Ma noi siamo quelli che sanno tenere testa. Siamo giovani. Eppure il tempo è venuto per portare a compimento la nobile promessa:
tutti sono uguali, tutti sono liberi, tutti meritano la felicità. Noi saremo giudicati non per quello che distruggiamo ma per quello che costruiamo».
Il giorno nuovo è iniziato. Dice una voce fra i commenti: non è una transizione. È una trasformazione.
Fonte: l'Unità - Furio Colombo | vai alla pagina » Segnala errori / abusi